Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.

Il governo dei Nobili a Napoli:

Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini.

                                                                                         di Ettore d’Alessandro di Pescolanciano
 


Seggio di
Capuana


Seggio di
Portanova


Seggio di
Nilo


Seggio di
Porto


Seggio di
Montagna


Seggio di Forcella


Seggio del
Popolo


1. L’autonomismo oligarchico del patriziato e dei baroni nel Regno

La nobiltà cittadina di Napoli, al pari di quella municipale francese “Noblesse de cloche” ha partecipato al secolare funzionamento del sistema di governo urbano e di quello del Regno, mantenendo nel tempo un evidente livello di autonomia, rispetto al potere centrale reale e papale, nonché garantendo il rispetto dei princìpi di decentramento e partecipazione nell’amministrazione.

La storia di Napoli, capitale del regno è, quindi, legata da un vincolo simbiotico con quella delle tante famiglie patrizie, con loro genealogie ed ascendenti ivi residenti nel corso dei secoli. Questi gruppi familiari, che scelsero di vivere in determinate aree della città e del regno con proprie regole e nel rispetto di tradizioni e costumanze locali sin dall’origine dell’antica Partenope, sono stati presenti quali importanti protagonisti della crescita urbanistica e sviluppo economico dell’Urbe.


Moneta napoletana raffigurante la sirena Partenope


Difatti, tale ceto nobiliare ha lasciato diverse tracce del proprio livello socio-culturale, degne del lignaggio di appartenenza, nella compagine cittadina partenopea, edificando maestosi ed artistici palazzi gentilizi, imponenti cappelle familiari, suntuose chiese e contribuendo pure alla nascita di famose opere pie assistenziali.
Tra gli enti caritatevoli-assistenziali, sorti a Napoli, si annovera il Pio Monte della Misericordia, fondato dai nobili Cesare Sersale, Giovan Andrea Gambacorta, Girolamo Lagni, Astorgio Agnese, Giovan Battista d’Alessandro, Giovan Vincenzo Piscicelli, Giovan Battista Manso. Altro esempio fu il piccolo conservatorio, prima, Eremo di Suor Orsola Benincasa, poi, di cui le cronache riferiscono che “presero esempio gli Eletti della città, e tutti i cittadini…uomini e donne, giovani e vecchi nobili cittadini, e plebei, si spogliarono di tutt’il meglio che avevano per impiegarlo in limosina di questa fabbrica
(1). E’altrettanto noto il contributo di taluni nobili allo sviluppo di un’economia pre-capitalista locale, tramite la fondazione di rinomati “banchi”, specializzati nell’attività creditizia già dal XV secolo.
Il latifondismo feudale, inoltre, ha garantito nei secoli un micro-sistema economico locale, basato su un’agricoltura sviluppata e su varie attività di allevamento collegate. Il mecenatismo dell’aristocrazia, inoltre, favorì la presenza in Napoli di famosi artisti (architetti, pittori, scultori) e letterati che produssero capolavori di grande successo.
In sostanza, il patriziato napoletano ha contribuito all’abbellimento, seguendo le mode raffinate del tempo, così come alla crescita urbana (strade, quartieri, edifici pubblici) ed economica della città e delle province del regno. La fama di tanto splendore, raggiunto dalla città di Napoli nel corso dei secoli, si diffuse rapidamente in tutti gli stati esteri e fu tale da incuriosire ed invogliare molte personalità straniere nel visitare la corte partenopea e suoi luoghi cittadini. E’, inoltre, opportuno ricordare i numerosi personaggi, dai nobili natali, che dettero grande impulso alla poesia, alla musica ed alle arti, partecipando alla formazione di illustri accademie culturali, frequentate, poi, anche da studiosi di altri paesi. Memore delle antiche tradizioni politiche ellenico-romano, legate alle forme di governo democratico-libertario-repubblicano, il suddetto ceto non accettò tanto facilmente il dispotismo e le monarchie assolutiste (La città di Napoli
in tutto il medio evo erasi retta a municipio bizantino, con forme repubblicane. Solo nel 1130 Ruggiero Normanno v’introdusse le forme monarchiche(2)). Combattuta, all’interno del ceto, tra il sentimento di fedeltà e devozione all’autorità monarchica e l’ideale progettualità di un governo oligarchico in un regno autonomo ed indipendente, il patriziato napoletano si trovò in diversi avvenimenti politici non unito, per tale divergenza.
Nonostante il susseguirsi delle varie regnanze, favorevoli o meno alla presenza di un cotale sistema di potere familiare oligarchico, è opinione comune ritenere la “schiatta” napoletana non “ vano avanzo d’una spenta istituzione, ma un potente ordine d’uomini, ai quali era commesso il conservare le usanze ed i privilegi della Città e del Regno di Napoli”
(3). Tale potente ceto dimostrò nel corso delle varie monarchie, succedutesi nel regno di Napoli, di essere in grado di sollevare ben organizzate rivolte politiche, coinvolgendo le masse popolari. Ciò è quanto avvenne nel 1485, allorquando la nobiltà baronale, comandata dal principe Roberto Sanseverino, sollevò grande tumulto contro Ferdinando I d’Aragona, chiedendo l’aiuto del duca Giovanni d’Angiò e dello stesso Papa. La causa, scatenante la rivolta, fu il tentativo della corona Aragonese di rinsaldare il prestigio ed il potere monarchico nel regno [I principali nomi dei baroni ribelli furono: Pirro del Balzo (principe di Altamura), Antonello Sanseverino (principe di Salerno), Girolamo Sanseverino (principe di Bisignano), Piero di Guevara (marchese del Vasto), Giovanni della Rovere (duca di Sora), Andrea Matteo Acquaviva (principe di Teramo), Giovanni Caracciolo (duca di Melfi), Angliberto del Balzo (duca di Nardò), Antonio Centenelli (duca di Melfi), Giovan Paolo del Balzo (conte di Nola), Pietro Bernardino Gaetano (conte di Morcone). Francesco Coppola (conte di Sarno), Francesco Petrucci (conte di Carinola), Giovanni Antonio (conte di Policastro)(4)].
L’alleanza dei baroni tenne testa all’esercito aragonese per circa un anno di combattimenti, riportando clamorosi successi. La divisione interna al gruppo dei feudatari, causata anche dalla presenza di una nobiltà rampante di recente formazione mercantile, gli odi feroci ed una profonda rivalità sviluppatasi tra taluni esponenti portarono il principe di Salerno, rappresentante la vecchia casta feudale, a commettere vari errori. La monarchia soffocò, così, nel sangue questa prima rivolta di cortigiani (Tra il 1486 ed il 1487 furono condannati e giustiziati Francesco Coppola, conte di Sarno, Antonello Petrucci e suoi figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro. Mentre vari baroni congiurati finirono nelle prigioni di Castelnuovo, ove nella notte del natale 1491 vennero soppressi
(5)).
Contro il governo assoluto dell’imperatore Carlo V, nuovamente la nobiltà cittadina ed i baroni si schierarono, parteggiando per l’armata francese, comandata dal Lautrec, scesa in Italia per volere sia del re di Francia che d’Inghilterra e della Svizzera, per liberare papa Clemente VII dalle prigioni di Castel S.Angelo. Nel 1528, molti casati filo-francesi, “
ricordevoli di quel dominio sotto la casa d’Angiò(6), parteggiarono per Odetto de Foix, visconte di Lautrec, causa il “tedio ed odio del dominio spagnuolo”. Tra i nobili anti-spagnoli, che particolarmente emersero nel conflitto, si ricordano Andrea Matteo Acquaviva, duca d’Atri, “il principe di Melfi, il conte di Conversano, e Federico Gaetani figlio di Onorato duca di Traetto e conte di Fondi, ed Errico Pandone duca di Boiano e conte di Venafro, cognato del conte di Conversano ed Alfonso Sanseverino duca di Somma(7).
Il Lautrec trovò concreti sostegni e supporti da parte di questa aristocrazia, allorquando cominciò ad invadere il regno con le sue truppe. Le adesioni alla causa francese furono numerose ed importanti, come testimoniano gli elenchi dei ribelli, redatti dal governo vicereale al termine della contesa ispano-francese. Tra gli esponenti più rinomati della nobiltà del regno vengono citati: Sergianni Caracciolo (principe di Melfi), Antonio Carafa (principe di Stigliano), Alberico Carafa (duca d’Ariano), Andrea Matteo Acquaviva (duca d’Atri), Errico Pandone (duca di Boiano), Ferrante Orsino (duca di Gravina), Alfonso Sanseverino (duca di Somma), Ferrante Castriota (duca di S. Pietro in Galatina), Giovan Bernardino Zurlo (duca di Nocera), Giovan Vincenzo Carafa (marchese di Montesarchio), Roberto Bonifazio (marchese d’Oria), Niccolò Maria Caracciolo (marchese di Castellaneta), Giacomo Maria Gaetani (conte di Morcone), Giovan Francesco Carafa (conte di Montecalvo), Raimondo Orsino (conte di Pacentro), Giulio Antonio Acquaviva (conte di Conversano), Francesco Sanseverino (conte di Capaccio), Giacomo d’Alessandro (barone di Cardito), Antonio di Somma (barone di Castigliano) e decine e decine di altri feudatari
(8).

Molti di costoro non usufruirono degli indulti di Carlo V del 24 aprile 1529 e del 28 aprile del 1530, tanto da essere fatti morire in segreto. E’, poi, da ricordare anche un altro significativo episodio di intolleranza del patriziato partenopeo verso il dispotismo vicereale.

Si tratta dei moti insurrezionali politico-religiosi della nobiltà napoletana contro l’aborrita Inquisizione “al modo di Spagna”. La prima reazione si verificò a fine 1509 con l’arrivo dell’Inquisitore spagnolo, Andrea Palazzo, a Napoli. Gli eletti, i gentiluomini ed i baroni con il Popolo si recarono dal viceré Cordova per richiederne l’allontanamento, giurando con atto pubblico “prima le honore, posponendo la ribellione, da perdere la robba et la vita che permectere se facesse tale inquisiscione”.
Il patto di affratellamento, tra patriziato e popolo, si confermò anche nell’adunata del 21 ottobre 1510 in San Lorenzo, nella quale si sancì che “in segno de dicta unione se abrazorono et basaro tucti…et per lo advenire essereno boni figlioli, patre, fratri et una cosa”.
Questo primo tentativo spagnolo di introdurre un valido strumento di controllo
politico a sostegno del governo vicereale, con cui stroncare ogni forma di dissidenza tra i sudditi, fu sospeso per essere poi riproposto nel 1547, sotto il viceré Toledo.

Alcuni anni prima, tra l’altro, nel 1535-36, passando l’imperatore Carlo V per Napoli, furono accolte le proteste dei principali esponenti dell’aristocrazia cittadina verso il governo autorevole ed energico di detto viceré Pietro de Toledo, per il quale se ne chiedeva la destituzione dalla carica. Il viceré, non solo fu confermato, ma si acuirono con maggior durezza i rapporti con le rappresentanze del Regno, del Parlamento, delle città e degli eletti, causa anche l’intensificarsi del prelievo straordinario (donativi), in seguito alle delibere di varie assemblee(9).
In proseguo, con l’accendersi dei moti del 1547 contro il tribunale dell’Inquisizione spagnola [L’imperatore Carlo V ordinò al vicerè di introdurre
l’inquisizione a modo di Spagna” che fu presentata dal Breve apostolico a mezzo di editto, affisso “alla porta del Duomo”.
La reazione della città fu immediata tanto che “minacciò il vicario dell’Arcivescovo”. Gli elettiriunirono i nobili ed i popolani..e si decise di mandare una deputazione – tra cui vi era Antonio Grisone – dal vicerè Pietro di Toledo” che calmò gli animi con promesse ingannevoli.
Al secondo tentativo del 21 maggio di riaffissione dei
“cedoloni” sull’Inquisizione, il popolo corse alle armi “col suono della campana di S.Lorenzo”, raccogliendosi in piazza S. Agostino.
”I nobili allora mossi dal comune pericolo si riunirono a’ plebei loro diedero il nome di fratelli, e fecero con loro causa comune
(10).
Il viceré Toledo raccolse circa tremila spagnoli nei castelli per soffocare nel sangue la rivolta scoppiata nell’urbe. La situazione precipitò quando tre algozzini(sbirri) del Tribunale della Vicaria furono attaccati da un gruppetto di giovani nobili, intenzionati a liberare un prigioniero accusato dall’Inquisizione. Il vicerè Toledo li fece arrestare e ne fece scannare tre in pubblico (Fabrizio d’Alessandro, Antonio Villamarino, Gio. Luigi Capuano) da uno schiavo moro nella piazza di Castelnuovo.
Subito dopo, il Toledo cavalcò impavido per la città con uno stuolo di spagnoli a segno di sfida, nello sdegno di tutta la cittadinanza. Il popolo con i nobili si unirono nell’associazione detta
Unione (retta da Cesare Mormile, il priore di Bari, l’Eletto Giovanni Di Sessa) per contrastare il viceré, organizzando ambascerie presso l’imperatore Carlo V e fortificazioni difensive in S. Maria la Nova ed a Monteoliveto.
Numerosi furono i cruenti combattimenti contro gli spagnoli, tanto da costringerli a ritirarsi nei castelli. Per evitare il precipitare delle contestazioni, Carlo V decretò l’abolizione dell’Inquisizione, garantendo promesse di amnistia, poi non rispettate.
Tra i giustiziati vi furono Giovanni Vincenzo Brancaccio
(11).], si presentò, nuovamente, l’unione tra ceto nobiliare e popolare. Alla guida della rivolta si pose, ancora una volta, un Sanseverino, dichiaratosi acerrimo nemico del Toledo. Scoppiarono in città violenti tumulti di piazza, che videro così uniti i rappresentanti delle piazze aristocratiche con il popolo contro le truppe spagnole, a causa degli esemplari castighi inflitti dal viceré. Detto principe Ferrante Sanseverino ed altri patrizi si offrirono, poi, alla causa rivoluzionaria quali ambasciatori presso l’imperatore Carlo V, che però confermò l’obbedienza al governo vicereale.
Questo nuovo episodio di difesa e salvaguardia dei princìpi di indipendenza ed autonomia politica, goduti dalla schiatta napoletana e dalla rispettiva città, si concluse con sanguinosi processi, una pesante ammenda da pagare e varie condanne
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©Napoli - Piazza San Gaetano
Gli stemmi dei Sedili o Seggi di Napoli sulla facciata ingresso Museo
Opere di San Lorenzo e Scavi,  già sede del Tribunale di San Lorenzo.


Altro tentativo di rivendicazione indipendentista fu quello relativo ai tumulti per il “mancamento del pane” nel maggio 1585. La causa scatenante fu un’imprevista carestia di grano, le cui riserve erano state esportate in grande quantità in Spagna per volere del re.
Gran parte degli eletti, il prefetto dell’annona ed i sindaci proposero di fronteggiare la crisi, diminuendo la materia prima nella panificazione, pur mantenendo inalterati i prezzi. Vi si oppose l’eletto del Popolo, Giovan Vincenzo Starace, ritenendo tale proposta una manovra speculativa basata su una frode alimentare, che avvantaggiava le categorie dei feudatari-latifondisti, dei commercianti, panificatori e bottegai. I disordini contro gli spagnoli portarono alla morte straziante del suddetto eletto per mano dello stesso spietato popolo, preoccupato per la crescente situazione di disagio. In questo tumulto la nobiltà tentò di “calmare” il popolo, cercando -su consiglio governativo- di persuaderlo dal compiere atti vandalici e violenti, nonostante l’offesa subita dal viceré in una festa cittadina, ove i posti più onorevoli furono riservati agli spagnoli
(12). Questo episodio di cruenta contestazione, rispetto a quelli passati, contro il governo complice del viceré,
Pietro Giron duca di Ossuna, vide quali principali protagonisti i diversi settori della borghesia cittadina, accorta al bisogno di riforme e di equiparazione al rango dei nobili [Tra gli incolpati, protagonisti della ribellione, il droghiere Gianlionardo Pisano, la cui casa in piazza della Sellaria fu rasa al suolo e vi fu “piantato un epitaffio di marmo..ed alquante finestrine, con alquante finestre, con le graticole di ferro, vi fe’ metter dentro più di venti teste, con molte delle mani di quei miseri, che furono per tal causa impiccati” (13) ].
Questa classe media emergente si rese altrettanto complice nella rivolta politica di Masaniello del 1647, per rivendicare una riforma nell’ordinamento amministrativo cittadino “tutto sbilanciato a favore del patriziato urbano raccolto nei seggi nobili
(14). L’esplosione popolare si manifestò con il tentativo governativo di imporre nuove tasse, tra cui il dazio sul consumo della frutta, il cui casotto fu dato alle fiamme in piazza Mercato nella notte dell’Ascensione (6 giugno 1647). Il pescivendolo Masaniello si trovò a capo delle scorribande e degli assalti successivi contro i simboli ed i rappresentanti delle gabelle, ricevendo sostegno da vari ispiratori, come Giulio Genoino, rappresentante dei gruppi nobiliari antispagnoli, nonché dagli “occulti conspiratori (15).

Lo stesso cercò, pure, il sostegno di Don Tiberio Caraffa, duca di Bisignano e maestro di campo del battaglione di Napoli, perché “compassionevole e della plebe amico(16). Altri nobili, invece, si attivarono per far rientrare la sommossa, avanzando “larghe promesse...o con ampie concessioni scritte”, come nel caso del principe di Satriano, di Bisignano e di Montesarchio. Tra l’altro, su questa vicenda dell’aggravio fiscale, anche i seggi presero posizioni discordanti. Secondo il citato studioso Bisaccioni, i sedili di Nido e Capuana si mostrarono attivamente contrari alle nuove imposizioni, pur rimanendo fedeli al viceré, duca d’Arcos. Questa fedeltà fu così riconosciuta nei capitoli del 7 settembre, postumi ai moti, allorquando si sancì l’interdizione dalle cariche pubbliche al solo patriziato di Porto, Montagna e Portanuova per la loro partecipazione ai moti. E’, inoltre, utile per meglio comprendere la posizione politica oligarchica della nobiltà partenopea, citare la “Regale Repubblica” di Napoli, sorta posteriormente al tumulto tra la fine del 1647 ed il 1648 sotto la protezione del re di Francia [Lo studioso Conti(17) riferisce dell’esistenza di vari bandi emessi, tra l’ottobre 1647 e l’aprile 1648, dal “Fidelissimo Popolo” napoletano, di cui quello datato 17 ottobre 1647 riguarda l’appello ai vari regni per combattere la Spagna.
Altro del 22/24 ottobre cita la costituita repubblica per la quale “questo Regno Repubblica, acciò niuno Re, Monarca o Regulo possi havere altra pretensione”.  Al duca di Guisa fu conferita carica di “Generale dell’armi” della repubblica e “Difensore della sua libertà”. Tutti questi bandi repubblicani e spagnoli hanno costituito la fonte documentaria dell’opera realizzata da J.Howell
(18).] e della di lui fedele guida, Enrico di Lorena duca di Guisa.


Tommaso Aniello detto Masaniello

Tale governo fu formato da tre senatori per il popolo e tre per la nobiltà [ I senatori del Popolo furono: Agostino Mollo, Gennaro Annese, Vincenzo D’Andrea; i nobili: Diomede Carafa, Cesare da Bologna, il principe Francesco Filomarino di Roccadaspide(19). ], oltre a due senatori (un popolare, un nobile) per ogni provincia (per un totale di 24 senatori). 
La scelta dei circa 30 senatori della Repubblica(20) rispettò il principio di pari uguaglianza tra nobiltà, popolo e province. In un editto di quel tempo si accenna alle Province, sollecitate nell’invio di rappresentanti a Napoli “per trattare per commune beneficio”, così come ai seggi cittadini tali da essere trattati “come nell’antichi tempi.. quelli Nobili, che producono le loro nobili attioni, o in virtù, o in arme”. Pertanto, l’ordine nobiliare del regno (feudatari e patriziato cittadino) si dovette equilibrare per rappresentanza numerica e funzioni con l’ordine popolare, rinunciando anche a prerogative secolari (la gestione fiscale) e ridimensionando la propria sfera d’influenza(21).
Ai nobili sarebbe rimasto, in modo formale, il tradizionale comando degli eserciti e delle ambascerie (già affidato a Francesco Toraldo, principe di Massa), mentre ai popolari il controllo economico della condotta della guerra per il tramite del “provveditore generale” (Vincenzo D’Andrea). Costui si rivelò “uomo che per valore d’ingegno, e per altezza di mente e vigor d’animo nell’eseguire quel che intraprendeva, era senza dubbio il primo fra’sollevati; il quale aborrendo ogni sorta di dominio, si aveva dato a credere di erigere la città ed il regno in repubblica
(22)

Tale Serenissima Real Repubblica di Napoli si ispirò al “modello classico di Roma repubblicana” con i suoi equilibri tra ceti sociali e tentò di emulare la contemporanea repubblica olandese “
delle sette province unite”. Questa sorta di repubblica popolare, su modello federale-rappresentativo con suoi incaricati provinciali e cittadini, si formò su un’unità di intenti tra popolo e nobiltà volta al raggiungimento dell’indipendenza dalla Spagna ed alla salita di un proprio re, godente della protezione della corona francese. Questo progetto rivoluzionario, comunque, sfumò per il ritiro dei nobili, consapevoli del sopravvenuto disimpegno del sovrano francese verso l’impresa bellica partenopea
, nonché per il manifesto disaccordo popolare nell’accettare una nuova regnanza(23).
Inoltre, l’immagine troppo radicale e violenta di una repubblica popolare fece indebolire le alleanze interne ed esterne, contrarie ad un governo, sempre più spostato sul versante del popolo minuto, nonché antimonarchico, antiassolutista e rivoluzionario sanguinario. Simile repubblica, ove il popolo si sostituiva al sovrano con la minaccia di sottrarre i beni ai legittimi possessori per interesse privato (esproprio repubblicano per pubblica utilità), sollevò grandi timori tra vari esponenti compartecipi della società locale e di altri stati. Comunque, già il 16 luglio, nella solenne ricorrenza della Madonna del Carmine, il tumulto era rientrato con l’assassinio del pescivendolo Masaniello, le cui spoglie furono poi sepolte nella chiesa del Carmine, oltre allo sterminio dei suoi fedeli collaboratori. Nei mesi successivi, infine, fu sedata definitivamente ogni altra forma di lotta, proseguita dal Toraldo, l’Annese ed il Guisa(24).
Ben altro sviluppo ebbe, invece, la rivolta aristocratica del 1701 in Napoli, nota alle cronache col nome del suo principale protagonista, il principe di Macchia, D. Gaetano Gambacorta. Questa congiura scoppiò nel periodo in cui si aprì la questione successoria alla morte dell’imperatore Carlo II d’Asburgo e si profilò il passaggio della corona spagnola con i suoi domini ad un principe francese, Filippo di Borbone duca d’Angiò. A Napoli, in tale epoca, andò ad affermarsi un partito di aristocratici, capitanati da Tiberio Carafa principe di Chiusano, che ispirati da “un vago ideale autonomistico
(25)  fecero un primo tentativo di delegittimare il vicerè, duca di Medinaceli, per contrapporgli il potere delle piazze e del corpo degli Eletti.
I congiurati, che si affiancarono al Carafa furono: il duca Francesco Spinelli di Castelluccia, Giuseppe Capece, Francesco e Bartolomeo Ceva Grimaldi duca di Telese, Savero Rocca dei marchesi di Vatolla, Malizia Carafa, Giambattista di Capua principe della Riccia, Cesare d’Avalos, marchese del Vasto, Francesco Gaetani principe di Caserta, Carlo ed Antonio Evoli dei duchi di Castropignano, Francesco Chassignet barone di Lisola ed altri nobili, sostenitori del partito asburgico-autonomista
(26). C
ostoro, difatti, approfittando della contesa successoria tra i Borbone e gli Asburgo, tentarono di stringere un’alleanza con l’imperatore d’Asburgo, dell’ausilio del conte di Lamberg e del cardinale Grimani. Assicuratisi dalla loro parte la guarnigione militare di Castel Nuovo, nonchè influenti gruppi popolari, i congiurati spedirono a Vienna D. Giuseppe Capece per definire gli accordi di alleanza con il suddetto imperatore, Leopoldo I.
Si affiancarono ai congiurati altri valenti sostenitori, quali il principe di San Severo, Carlo di Sangro, Gaetano Gambacorta principe di Macchia che fu nominato “Generalissimo”. Gli eletti napoletani, invece, rimasero fedeli al viceré Medinaceli, il quale continuò a governare secondo le disposizioni della Spagna. I nobili cospiratori, ottenuto l’avallo imperiale sulle concessioni ed una promessa d’intervento armato tramite il principe Eugenio di Savoia, programmarono, quindi, la presa di Castel Nuovo, della chiesa di S. Lorenzo e del mercato, agendo con scorribande e saccheggi tra il 22 ed il 23 settembre 1701(27).

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© Napoli - Sala Capitolare , una delle sale del Complesso di S. Lorenzo dove si riunivano
gli eletti dei Sedili

Il principe di Macchia giunse, pure, a lanciare un proclama onde convincere la nobiltà reticente (specie quella spagnola o filo-francese) a scendere in aiuto ai congiurati, senza però riuscire a persuadere gli Eletti cittadini. Lo scontro decisivo con le truppe regie ed un piccolo nucleo alleato di nobili, guidati dal principe di Montesarchio, avvenne il 24 settembre all’altezza tra lo Spirito Santo, Port’Alba e S. Lorenzo, con la messa in fuga dei ribelli. Si sedarono, poi, le rivolte scoppiate in Aversa, Isernia e Salerno. Il dopo-sommossa fu costellato da una violenta e sanguinosa repressione, voluta dal viceré Medinaceli per punire duramente i principali colpevoli(28). Il fallimento della rivolta fu, a detta di molti storici, da imputarsi alla “grande massa del popolo, su cui aveva fatto leva il Gambacorta per convincere gli altri nobili alla sommossa, resta assente, indifferente allo svolgersi dei fatti”.
Nella rivoluzione “passiva”(29) del 1799, che vide la nascita della Repubblica Napoletana, una parte della nobiltà si rese protagonista, con il ceto della borghesia “avanzata” e di quella intellettuale radicale, di un programma di iniziative riformiste ed anti-assolutiste dell’assetto istituzionale, seppur con l’ausilio di una forza militare straniera, comandata dal gen. Championnet(30). Durante la breve durata di questo governo giacobino-democratico-illuminista furono varate le leggi sulla eversione-soppressione della feudalità e scioglimento dei fedecommessi e majoraschi.
I sedili lasciarono il posto a sei municipalità indipendenti
(31) e furono poi aboliti i titoli di nobiltà. A Napoli tra le fazioni politiche affermatesi vi fu quella che sosteneva che il governo cittadino fosse affidato, non al vicario Pignatelli (essendo il sovrano ritiratosi in Sicilia), bensì agli Eletti del senato municipale. Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, con altri nobili rivendicarono, inoltre, un governo aristocratico con nuovo re, scelto dalla Spagna (32).
La Repubblica partenopea sopperì con lo sviluppo delle insorgenze controrivoluzionarie della Santa Fede, capitanate dal cardinale Ruffo. Al rientro di re Ferdinando si ordinarono arresti e condanne a morte verso i ribelli, incriminati di lesa Maestà per aver collaborato con l’invasore francese e per insubordinazione verso il vicario.
 

2.Il governo nobiliare dei sedili nel corso dei secoli

L’origine dei seggi nella Napoli greco-romana


La nascita dei Sedili o Seggi  o Piazze di Napoli si ritiene essere alquanto antica, tale da risalire alle leggendarie “fratrie” urbane delle città greche, che componevano le “file”, cioè i corpi in cui era diviso il popolo. Secondo il Giannone(33) dette fratrie corrispondevano a delle piazze con teatri e propri templi presenti nelle cittadine dei greci, come da testimonianza lasciata sia da Varrone(34) che da Turnebo (“Quod cum Neapolis oppidum Graecum esset, ut Athenae, suas Phratrias habebat”). In tali aree urbane, spesso vicine alle porte d’accesso, i soli appartenenti alla classe, che “viveva nobilmente” e cioè senza svolgere alcun mestiere o arte (nobiltà di spada, nobiltà di terra, nobiltà di toga), discutevano di “pubblici affari” o “privati interessi”.

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© Napoli - Colonna del tempio dei Dioscuri ora
 chiesa di S. Paolo Maggiore

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© Napoli - i resti delle mura greche risalenti al IV sec. A.C.
 


Tale classe di cittadini, formante il “patriziato” con dignità gentilizia trasmissibile ai discendenti, costituì “antica istituzione sociale” governativa con poteri politici presso le popolazioni greca, romana e successive dominazioni barbariche (germani, goti, galli), come asseriscono gli storici Draco
(35) ed il Gentili(36).

Nel periodo ellenico-romano, rimase, invece, esclusa dai centri di potere la classe dei popolani, che, per i loro impegni nelle mercanzie, arti  meccaniche,  agricoltura  o  studio   delle  varie lettere e discipline, “non poterono aver quest’ozio di convenir nelle piazze a trattar co’nobili de’ pubblici affari”.

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© Napoli - Agorà

Il primo nucleo di nobili, frequentanti dette aree, si identificò, probabilmente, in quella “Gens” con sue peculiarità di romana memoria(37). Secondo il Tutini(38) la tradizione urbanistica greca, inoltre, prevedeva un numero di queste aree di incontro, presenti sia a Napoli che in altre colonie della Magna Grecia, pari a quattro (da cui deriva il termine “quartiere”).
Gli storici Giovanni Villani, Falco e Lettieri sostennero, di contro, che la città fosse all’origine divisa in “tre sole piazze o strade lunghe per dirittura, e l’altre per traverso erano dette Vichi”. Quest’ultimo termine fu usato dallo stesso Petrarca per definire, in lingua latina, questi seggi di Napoli, Vici cioè vichi”. Le fratrie, riferisce, poi, Annibale Di Niscia erano dedicate ad un nume, dal quale prendevano il nome (
Phratria Eumelidarum, dal dio Eumelo, Ph. Heboniorum, dal dio Ebone, Ph.Castorum, dal dio Castore). Filippo Pagano(39)  aggiunge che ivi, difatti, si radunavano le persone per “esercitare il natio culto, e venerare i patri numi”.
La trasformazione delle fratrie in seggi avvenne alla fine del IX secolo, come asserisce il medesimo Pagano, allorquando “popolani e gentiluomini” cominciarono ad erigere molti portici  in epoca di espansione della religione cristiana. In seguito, furono edificati appositi sedili di sosta o seduta dei cittadini, dai quali derivò l’uso di tale denominazione per indicare detti luoghi, seppur cominciò anche a propagarsi la dizione di “tocchi” per indicare le riunioni delle brigate in specifiche zone. Secondo il citato Tutini, comunque, occorreva mantenere la distinzione tra “seggio” e “piazza”, per la seguente motivazione: “benché sia più generico il nome di Piazza, che di Seggio, ad ogni modo il nome di Seggio alla Piazza si considera come specie al genere, onde si può dire è Seggio, dunque è Piazza, perché è una parte di essa; dove convengono i nobili, che dimorano in quella piazza. Ma non vale dire è Piazza dunque è Seggio, perché nella Piazza si comprendono i nobili, che sono fuori del seggio e cittadini che abitano quella piazza”.
Altri storici hanno, altresì, concordato sull’uguaglianza di significato di Seggio e Piazza.
Il Capecelatro nei suoi Annali
(40) individua nella Piazza quel luogo, ove si riunivano i nobili, facendola corrispondere al Seggio, secondo la definizione del Tutini. Si diffuse, inoltre, la consuetudine di chiamare i seggi in base al luogo, ove furono eretti gli edifici che li ospitavano(41), nonché in base a quello della famiglia importante ivi residente, che espletava funzioni amministrative. Nel basso medioevo, pertanto, il governo politico della città partenopea rimase sotto il controllo del gruppo di queste famiglie patrizie di origine greco-romana, mentre l’impero romano d’Occidente finiva (476) con Romolo Augusto, esiliato nella villa di Lucullo in Castel dell’Ovo e si andava affermando l’indipendente Ducato di Napoli del regno Longobardo. Queste famiglie native, con il precipitare degli eventi, si trovarono costrette ad integrarsi con altre forestiere, giunte a seguito delle varie dominazioni barbariche susseguitesi con i rispettivi sovrani.
 

L’epoca normanna


Con la prima monarchia dominante, i governi municipali (tra cui Napoli), collegati a Bisanzio e retti da esponenti delle illustre Gens delle provincie a sud di Roma, dovettero confrontarsi con i loro conquistatori e loro progetti organizzativi. Fonti storiche certe, quali gli editti di concessione di privilegi, emanati sotto la regnanza del normanno Tancredi, riferiscono dell’esistenza di tre-quattro grandi seggi napoletani. Probabilmente, esisteva già un certo numero di seggi minori, circa 21, pari ai consoli del magistrato di governo, durante il regno dello stesso re Tancredi.
E’, quindi, comprensibile come i  normanni dovettero accettare un sistema amministrativo delle città regie, basato su una già esistente organizzazione dei sedili, al fine di non inimicarsi le cittadinanze locali. Il primo nucleo di nobiltà di seggio, comunque, dovette consolidarsi grazie a re Ruggiero I che insediatosi a Napoli nel XII secolocreò cencinquanta militi, a ciascun dei quali diede in feudo cinque moggia di terra”. Questi feudatari (nobiltà di terra e spada) formarono una prima corte reale, con il patriziato cittadino
(42).

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© Ruggiero I detto il Normanno scelse Castel dell'Ovo come sua residenza a Napoli. A destra: Gugliemo I detto il Malo
fece costruire Castel Capuano

Sotto re Ruggiero, nel 1140, si svolse tra l’altro il primo parlamento dei baroni ad Ariano, nel corso del quale fu istituita la tassa dell’adoa. I militi, secondo le tradizioni guerriere normanne, discendevano di norma da altri militi ed avevano la possibilità di godere delle terre feudali su concessione dei rispettivi sovrani. Il milite, comunque, secondo il Padiglione, pur appartenendo ad antica nobiltà militare, era un “vir nobilis” solo se aggregato ad una delle accennate adunanze dei nobili in città, ove tra i requisiti richiesti per esservi ascritti vi figurava il possesso delle armi, dei cavalli ed il vivere nobilmente. Tale qualifica, poi, fu concessa anche ad ufficiali e togati al servizio del sovrano, al presidente del Consiglio, al luogotenente della Camera, ai consiglieri e presidenti della Camera. Infine, sotto questa regnanza tra i militi figurarono i “cavalieri aurati”, nonché coloro che erano stati onorati dall’indossare il cingolo militare, milizia istituita dal conte Ruggiero Sr.(43).
E’ interessante notare come il simbolo araldico del Leone, utilizzato dai dominatori normanni, divenne emblema o facente parte dell’arme di numerose famiglie nobili napoletane a partire da questa epoca.
Di questa epoca è importante l’atto del 1207 di traslazione del corpo di Santa Giuliana, da Cuma a Napoli per volere dell’Arcivescovo Anselmo, perché vi figurarono i primi nobili del seggio di Nido. 
 

L’epoca  sveva


Il costituito nucleo dei nobili, in tale epoca, si trovò nei suoi ranghi a frenare la corsa al lusso, ad ostentare la ricchezza, causa la potenza dei nuovi emergenti ceti più favoriti economicamente. Furono, così, emessi dei provvedimenti che fissarono regole di comportamento sociale, specie per i costumi ed abitudini consumistiche della nobiltà, onde scongiurare il venir meno degli impegni militari e fiscali verso la monarchia.
Taluni provvedimenti sulla sana gestione dell’economia domestica, sulla moderazione dei consumi erano in vigore, in forma di regole, presso il seggio di Capuana a fine XIII secolo
(44). L’Istrumento del 1221, sotto Federico II, menziona una “promissione di denari in beneficio de extaurita Santissima Trinitatis praedictae Platea Nidi”. Inoltre, vi è testimonianza sui seggi nelle Costituzioni di Federico II, allorquando si fa cenno all’amministrazione del municipio (gestione dei beni ed entrate comunali), gestita da un sindaco e due eletti (scelti dal popolo con una votazione fatta per “grida” in cui erano escluse donne, bambini, debitori e condannati).

Fece seguito, a metà del XIII secolo, l’iniziativa di re Manfredi di Svevia che riconobbe ai patrizi napoletani, ascritti ai Seggi, il sessantesimo dei diritti della dogana di terra e mare della città di Napoli, affinché mantenessero “il lustro del loro grado”. Questa nobiltà godette del diritto di radunarsi in luoghi speciali per l’amministrazione della città(45).

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Napoli - statua di Federico II di Svevia

Comunque, sotto gli Svevi, come accadde con i Normanni, chi “volea prendere il cingolo dovea presentare i suoi requisiti ricercati dalle loro costituzioni ne’ titoli de nova militia, e de honore militari 59 e 60 lib.3”. Pertanto, fu confermata la regola circa la nomina di “milite” su “licenza” del Re e con discendenza da altri cavalieri. Difatti, la stessa Costituzione di re Guglielmo, De adjutoriis exigendis...pro faciendo filio milite, stabilì la norma che i figli primogeniti dei cavalieri dovevano “armarsi cavalieri”. Tale prerogativa successoria fu, poi, estesa anche ai fratelli del primogenito tramite la Costituzione di re Federico II, Comitibus tit. de adjutoriis pro militia fratris.
 

L’epoca  angioina


Sotto questa dinastia risulterebbe il numero dei sedili essere passato da tre-quattro a sei.
Gli angioini si manifestarono, comunque, contrari a tale sistema organizzativo cittadino, tanto da tentare di limitare un simile sistema politico di governo, gestito dalla nobiltà urbana feudataria. Con re Roberto ebbe inizio la riforma angioina dell’amministrazione cittadina (metà XIII secolo), volta a ridurre i diversi privilegi nobiliari, come ad esempio il diritto residenziale di aggregazione, in uso fino all’epoca del suo regno, per il quale i nobili “mutando domicilio cangiavano seggio”.
Fu concessa aggregazione nei sedili anche alle famiglie nobili di altre città, venute ad abitare a Napoli ed imparentatesi con il patriziato locale (aggregati per “allectionem”) nell’arco dei 30 anni. Costoro erano, poi, obbligati a collettare in eguale misura. Il governo deliberò, poi, per volontà di re Roberto, lo snellimento dell’organizzazione cittadina riducendo i sedili da 29 esistenti a 5 (Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanova), eliminando molti seggi minori, ove le famiglie erano estinte o passate in altro sedile principale. Il seggio di Melari, ad esempio, fu inglobato nel seggio di Capuana nel 1325, mentre quello di Griffi totalmente abolito nel 1331. Si verificò, pure, negli ultimi anni del regno del suddetto sovrano che si unissero due seggi maggiori: Forcella e Montagna, a causa del venir meno di un nucleo significativo di famiglie nella piazza di Forcella. Conferma di detta unione si rinviene in una lite del 1338, sorta tra i nobili di Capuana e Nido ed altre piazze, circa le concessioni di re Roberto sugli “onori” e “pesi” pubblici (terza parte a Capuana e Nido, terza parte a Montagna, Porto e Portanuova, terza parte al Popolo), in cui si menzionano solo 6 eletti compreso quello di Popolo
(46).

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© Napoli - Corporazione dell'Arte della Seta - il libro delle matricole.

Sotto re Roberto, comunque, si menzionano vari episodi di liti tra nobili delle diverse piazze, spesso con feriti e morti, tanto da costringere il medesimo sovrano ad intervenire con la formulazione di Capitoli (basati su dieci punti) per sedare le discordie tra le piazze nel 1339.
In merito all’appartenenza dei cittadini al sedile di Popolo, il medesimo sovrano angioino distinse detta classe in base alla ricchezza tra “popolo grasso” e “popolo minuto”: “De Populo qui comuni vocabulo dicitur grassus hoc est de meliore Populo, et non de Populo minuto et artistis, qui soliti non sunt, nec expedit eis talis oneribus et honoribus”. Questo “popolo grasso”, che guadagnava “molto con l’industria e col commercio”(facoltosi negozianti, notai, artigiani), sfoggiava “dissennatamente coi loro lucri”, mentre l’antica nobiltà si asteneva “da ogni spesa superflua
e non oltrepassava una cifra stabilita nell’abbigliarsi” per non “impoverire il patrimonio degli avi”.
Vi fu, inoltre, volontà reale di garantire a tale piazza gli stessi diritti e pubblici voti goduti dalla nobiltà (nel 1380 vi fu a Napoli anche una sommossa popolare per tale rivendicazione). 

La regina Giovanna perfezionò la suddetta riforma, confermando il numero dei seggi e rispettivo potere politico. In particolare, fu abolito definitivamente il seggio di Forcella ed incorporato in quello di Montagna (con diritto di nominare due eletti: 1 per Montagna, 1 per Forcella).
Fu ribadita la chiusura dei seggi minori, a discapito del decentramento amministrativo, nonché fissato l’obbligo di aggregazione delle famiglie residenti nei seggi principali. Inoltre, fu ordinato la redazione dell’elenco dei feudatari, in cui non comparirono i feudatari delle piazze abolite.
Anche sotto tale regina scoppiarono tumulti ad opera dei nobili dei seggi di Nido e Capuana, rivendicando posti di prestigio nel governo ed uffici amministrativi, come da sentenza di re Roberto.

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© Napoli - Monumento funebre di re Ladislao

La rivolta rientrò(48) con l’indulto reale, concesso ai ribelli, con l’intento di placare gli animi e fidelizzare gli spiriti ribelli. Nel 1352 la stessa sovrana istituì l’Ordine di Nodo per coinvolgere una certa moltitudine di cavalieri del regno. Scrive al riguardo il Torelli (49) dell’esistenza a Napoli di “tre ordini della Nave, della Leonza, e del Nodo, che gli Antichi Re Napoletani concedevano più tosto di Confratanze di cavalieri, che d’Ordini meritavano il nome; perché, secondo il Padre Menestier, non erano confirmati dal Papa, ne regolati da Statuti”. Secondo questa fonte, re Carlo, tra l’altro, fu “l’istitutore” dell’Ordine della Nave che aveva come insegna la famosa nave “che condusse Giasone alla conquista del Vello d’oro”. Riguardo all’Ordine del Nodo, si rappresentava con “un laccio di seta d’oro, e di perle, che si legava nel petto, o si stringeva nel braccio, non mai concedevasi se non a’ Cavalieri di gran cuore”. In occasione del conflitto tra le armate di re Ludovico d’Ungheria, giunto nel Regno di Napoli per vendicare la morte del fratello Andrea, e l’esercito angioino della regina Giovanna, le cronache del tempo confermarono che il governo della città di Napoli era composto da sei piazze.
A quel tempo i sedili di Capuana e Nido erano considerati più prestigiosi rispetto alle altre piazze.

Re Carlo I d’Angiò confermò, poi, la concessione sui diritti doganali alla nobiltà di seggio, in special modo a quella di Capuana e Nido (dal 1334). Detto sovrano, seppur non introdusse nuove divisioni tra seggi nobiliari e popolari, accentuò tale distinzione con il rendere più illustre e rafforzare la nobiltà napoletana. Tra le prerogative concesse da re Carlo alla nobiltà, si annovera quella di pagare pur sempre le “collette” fiscali, ma separatamente dal Popolo, che aveva propri collettori. Confermò, anche, il privilegio concesso da re Manfredi di dividere tra i nobili la sessantesima parte delle entrate fiscali sulle mercanzie (jus delle mercanzie) che entravano a Napoli.
Secondo Francesco Palermo, Carlo I riorganizzò i parlamenti, riducendoli e limitandoli alla partecipazione della nobiltà feudale (baroni), degli ufficiali del Regno nonché di quattro deputati per ogni città e due per ogni terra. I baroni, frattanto, trovarono residenze nei seggi, specie in quelli di Capuana e Nido, in quanto piazze rappresentative della “nobiltà feudale” già dai tempi di re Roberto (i seggi di Montagna, Porto e Portanuova rappresentavano la “nobiltà secondaria”). Questa aristocrazia partenopea, sia “nobili” che “feudali” del Regno, giunse a rivendicare la maggioranza dei diritti e privilegi rispetto al Popolo, che intendeva invece salvaguardare l’atavico principio egalitario di rappresentanza(50).
Re Carlo decretò, comunque, che i nobili venissero nominati cavalieri solo se residenti a Napoli, capitale del regno, tanto che “l
a nobiltà Napoletana fregiata di questi titoli ed Ordini di Cavalleria, si rese più chiara ed illustre sopra la Nobiltà di tutte le altre città del Regno”. Lo stesso sovrano, tra l’altro, aveva portato con sé, poi, molti nobili provenzali e francesi che furono premiati con feudi e cariche pubbliche, seppur nel rispetto di quelle regole da lui fissate sul vivere nobilmente “cum armis et equis” nel proprio rione, nonché sul decoro con il cingolo militare, con cui si armavano i cavalieri (“Quod nullus possit accipere militare cingulum, nisi ex parte patris saltem sit miles”) e sul collettare con i nobili
(51).
Il cavaliere milite, così, godette dei privilegi militari, dell’esenzione dalle tasse, di portare la spada fino al “gabinetto” del re, del privilegio della caccia, del non obbligo di battersi in duello con gli “ignobili”. Inoltre, imponenti cerimonie furono previste per l’acquisizione del cingolo. In questo periodo, l’aggregazione di una famiglia ad un seggio si confermò anche per mezzo del matrimonio contratto con un nobile e dimostrando di essere vissuti nobilmente in Napoli (sia come cittadini che come forestieri), nonché per mezzo delle stesse norme dei capitoli generali dei seggi 
52).
Il possesso di case nei pressi dei seggi, pure, favorì la reintegra nei sedili nobiliari, perché ritenuto “atto possessivo di nobiltà in quel seggio”. Sotto il dominio degli angioini, in definitiva, fu concesso ai seggi di rappresentare la capitale ed il Regno, fissando regole più rigorose nelle aggregazioni rispetto alle precedenti regnanze, che invece avevano immesso nei ranghi del patriziato anche esponenti popolari “ascesi a grande ricchezze” o “nobilmente vissuti” ed ormai esenti dall’attività del mercanteggiare. Infine, il Giannone asserisce che al tempo di re Carlo I il numero dei seggi era comunque 29 (6 maggiori, 23 minori). 
Sotto la giovane regnanza di Ladislao (1386), per frenare l’avido governo della di lui madre Margherita, sempre pronta ad imporre gabelle ai sudditi del regno, i seggi napoletani decisero unitamente di eleggere un collegio di “Otto Signori del Buono Stato” o buon governo [gli “Otto” furono Martuscello dell’Aversana (Capuana), Andrea Carrafa (Nido), Paolo Boccaporto e Tuccio di Tora (Montagna), Giovanni di Dura (Porto), Giulio di Costanzo (Portauova), Ottone Pisano e Stefano Marzato (Popolo)]. Costoro, nel ruolo di ministri del re, erano preposti al controllo delle decisioni governative del Supremo Consiglio, intervenendo in Tribunale contro le delibere ingiuste. Gli “Otto” si trovarono a sostenere il partito “angioino” che lottava per la successione di re Luigi II al trono di Napoli, avallata da papa Clemente.
Tale fazione, capeggiata da Tommaso Sanseverino, riuscì a prendere possesso della capitale, cacciando il partito “Durazzesco”, sostenitore di re Ladislao che con l’appoggio del Papa scismatico, Urbano, si ritirò in Gaeta.
 

L’epoca  aragonese


Re Alfonso I d’Aragona, appena entrò in Napoli per la porta del Mercato (1443), sopra un imponente carro dorato ed accompagnato da un lungo e sfarzoso corteo(53) volle visitare i seggi ed incontrare gli eletti. Convocò il primo Parlamento generale del regno nella capitale e fece intervenire “gli illustri Principi, Duchi e Marchesi, e gli spettabili e magnifici Conti e gli altri magnati baroni feudatari del Regno”. Il re ritenne opportuno negoziare, subito, con i potenti baroni, traendoli a sé con i favori e la benevolenza. Furono varati diversi provvedimenti di riforma in campo tributario e giudiziario(54) . Abolì, ad esempio, le imposizioni “per capita”, cioè le collette, sostituite con quelle per focolari (10 carlini a famiglia). Altro provvedimento riguardò la lotta al gioco d’azzardo, molto diffuso pubblicamente e privatamente a Napoli nel corso del XV secolo presso il popolo e la nobiltà.  Lo stesso sovrano accrebbe il numero dei baroni e dei “titolati” dei sedili (a Nido fu accolto il conte di Borrello e Bucchianico).


Ingresso trionfale di Alfonso I d'Aragona in Napoli

In questi tempi, si entrava “nei seggi per via di parentele, d’amicizie o per favore reale; ma già ci voleva la votazione per esservi ammessi”(55). Ai baroni concesse “il mero e misto imperio”, cioè un controllo della giurisdizione civile e criminale sui sudditi vassalli. Tali segnali di riconoscenza verso i feudatari ed il patriziato locale e sua atavica organizzazione cittadina non perdurarono nel corso della regnanza di Alfonso. Nel programma di razionalizzazione dell’apparato statale, re Alfonso sottrasse molte attività amministrative-governative dal controllo baronale per affidarle a personale catalano-spagnolo o funzionari fedelissimi. Il riscatto del governo centrale statale andò, così, verso una forma di “assolutismo monarchico”, tanto respinta dall’antico patriziato, che fu così descritta dallo storico Santoro: “sotto Alfonso tutta la nobiltà vecchia era stata miseramente vessata, che appena vi rimaneva vestiario di tante famiglie illustri, di che era pienissimo il Reame, ché, ove si numeravano tanti rampolli delle Casate regali...essendo quasi estinti i Balzi, i Caldora, i Celano, i Marziani, i Monforti, Camponeschi, Belmonti, Fasanelli”.
Inoltre, tale sovrano giunse a sopprimere (10 dicembre 1456) il sedile di Popolo o della Sellaria o Pittato, posto in piazza della Sellaria, con estromissione dei cittadini dalle faccende pubbliche. Secondo talune fonti si trattò di un atto grave, uno “sgarbo” verso il popolo, solo per compiacere una sua favorita, Lucrezia d’Alagno, la cui casa non godeva di libera visuale, causa l’edificio in questione.
Altri storici, invece, riferiscono di una motivazione giustificativa pubblica ai cittadini, in cui Alfonso d’Aragona giustificò tale soppressione “perché non vole annobiliare la città, che la strada della Sellaria era bella, se leva quello Seggio, et una casa, che stava al mezzo, le quali impedivano per non poster fare la processione, feste e giostre”.
Si ebbero, così, grossi tumulti
(56) per la richiesta della “restituzione del suo sedile e della sua rappresentanza”, tanto da farlo, poi, ripristinare su decisione di Carlo VIII di Francia (con sede collocata nel chiostro di S. Antonio), seppur limitato nel diritto di rappresentanza politica in ambito amministrativo (editto 1495).
In occasione del giuramento di fedeltà della città di Napoli al re Ferrante (Ferdinando I), figlio di Alfonso, i seggi di Capuana e Nido ebbero “la precedenza del primo luogo”. Difatti, risultava ancora che “sempre queste due Piazze precedevano alle altre tre di Montagna, Porto e Portauova”.
Re Ferrante favorì l’attenzione per le attività economiche tra il corpo dei baroni con cui patteggiò accordi sulla gestione del commercio interno ed estero. Per il suo interesse all’economia accolse grossi mercanti di umili origini alla sua corte, assegnando loro alte cariche statali (come per Francesco Coppola) e contrariando quella nobiltà cittadina tradizionalista con atavici pregiudizi. Seppur una buona parte del patriziato della città reale, la Universitas Civitatis Neapolitanae, fin dal novembre del 1459 manifestò il proprio fiducioso apporto alla corona aragonese, i baroni del Regno, memori dell’innata volontà indipendentista, cominciarono a tramare contro il potere regio. In occasione del fallito attentato allo stesso re Ferdinando, per mano di alcuni baroni ribelli (
Marzano, Orsini, Cantelmo, Caracciolo, Torellas, Centelles), i gentiluomini e cittadini napoletani confermarono la propria fedeltà al sovrano, che fu premiata con un decreto di tutela degli affitti immobiliari, “li pesuni de case”, nonché riconoscendo una particolare priorità alla città, rispetto alle altre demaniali.
Con l’obiettivo di rafforzare la “fazione regia” e garantirsi maggiore fedeltà, re Ferdinando emanò dal 1476 numerosi capitoli a favore di Napoli, tra cui la “prammatica sanzione” del 1479 con la quale i diritti ed i privilegi dei cittadini napoletani furono estesi anche ai forestieri ivi residenti. Inoltre, furono riconosciuti, formalmente, i poteri del corpo degli Eletti dei seggi cittadini. Lo stesso sovrano emanò delle ordinanze per una maggiore divisione dei possedimenti territoriali, nonché prese delle decisioni per rendere più indipendenti i vassalli dai baroni, cercando di ridurre il loro potere. Con il crescere degli arresti e processi di signori, lo scontro con i baroni fu inevitabile con la grande rivolta citata del 1485, cui fecero seguito gli anni delle sanguinose vendette contro i più eminenti ribelli feudatari, anche di origine spagnola.

Sotto il successivo re Federico, tra il 1496 ed il 1501, il sedile di Popolo riacquistò stessi diritti degli altri seggi nobili. Si accentuarono, tal volta, le rivalità tra le due classi sociali, che si manifestarono principalmente in occasione della festa del Corpus Domini; sia nel 1499 che nel 1505 il deputato del Popolo riuscì ad ottenere il diritto di portare l’ostia, facendo così ritirare i seggi dalla processione.
Nel 1448, tra l’altro, era stato dichiarato “esser tutti i seggi pari in nobiltà ed in dignità”, in virtù del decreto di re Ferrante in cui si annunciava che “tutti gli abitanti devono essere eguali tra loro, ed ognuno deve godere liberamente i diritti garantiti dallo Stato”. Nonostante ciò, i seggi di Capuana e Nido mantennero una loro regola di imparentamento tra le famiglie residenti, nonché fondarono loro monasteri per le proprie donzelle. Regnando re Ladislao, fu concesso agli eletti con il “grasciero” di soprintendere all’annona ed alle grasce, nonché punire i loro dipendenti per reati con gli Angioini ed Aragonesi. L’ammissione al seggio, in tale epoca, continuò a dipendere dalla decisione della maggioranza delle famiglie o per matrimonio, contratto con talune di queste ed altri requisiti.
 

L’epoca del viceregno spagnolo


Carlo V, diventando re d’Italia nel 1530 sugli stati soggetti a dominazione iberica (Milano, Napoli, Sicilia), giunse a Napoli nel novembre 1535. La città accolse in trionfo l’illustre ospite; si formarono due cortei di accoglienza che andarono incontro all’imperatore ed un’unica cavalcata entrò in città, passando sotto archi di trionfo, con rappresentazioni allegoriche, per il Duomo, i seggi, il tribunale di S. Lorenzo e Castelnuovo. Parteciparono ai festeggiamenti il baronaggio, il clero (con l’arcivescovo Carafa), il governo del municipio (con il sindaco, il principe Ferrante Sanseverino). Gli eletti offrirono all’imperatore le chiavi della città, che restituì a loro dicendo che stavano "in bone mani de vassalli soi fedelissimi”.
In epoca di dominazione spagnola, si potenziarono talune cariche e non si effettuarono significanti cambiamenti nell’amministrazione dei sedili. L’eletto del Popolo ottenne la facoltà di poter far ricorso al Viceré in casi di disaccordo con gli altri rappresentanti. La figura del sindaco, scelto tra le 5 piazze, si affermò maggiormente, tanto da presenziare alle convocazioni dei parlamenti o alla venuta dei Viceré e dei personaggi reali in città.
In tale periodo, quindi, il sindaco rappresentò “la città, il baronaggio e le città demaniali”.
Nel parlamento generale, che si riunì in S. Domenico Maggiore il 23/25 aprile 1504, inaugurando il vicereame, con i baroni, prelati, eletti dei sedili e rappresentanti delle città demaniali si fissarono i nuovi prelievi fiscali, voluti dal viceré Consalvo Fernandez de Cordova. La raccolta erariale portò circa 300 mila ducati nelle casse di re Ferdinando e regina Isabella (le unità familiari, fuochi, contribuirono con 3 tarì, i baroni con l’adoa, i prelati con metà delle rendite e la stessa Napoli, pur godendo di esenzione, con 11 mila ducati
(57)). Regnando, poi, il viceré Don Pedro de Toledo, dopo gli accennati dissapori con il patriziato cittadino per l’Inquisizione spagnola (1535-47), vi fu un tentativo (1554) da parte di molte famiglie “nobilitate con feudi” e “signori di vassalli”, ma non aggregate ad alcuna piazza napoletana, di richiedere all’imperatore Carlo V l’aggregazione ai sedili napoletani o la concessione di un nuovo seggio per “godere degli onori”. A questa iniziativa senza successo, fece seguito altra (1557-1558), voluta da varie famiglie spagnole in Napoli che rivolsero supplica a re Filippo II senza, però, essere esauditi.
Al riguardo Ettore d’Aquino scrisse nel 1557 un “Breve discorso sopra la giusta pretendenza d’avere parte nel Governo i Cavalieri che non sono chiamati nelli Seggi di Napoli”, in cui vennero formulate al re le seguenti richieste:
1- una certa nobiltà “forestiera”, come un rilevante numero di baroni, (circa 80 famiglie) adempiendo agli oneri e “pesi” della città a favore della corona, chiedevano di essere rappresentati nel governo cittadino al pari del patriziato di seggio;

2 - fu chiesto la concessione, a questi fedeli cavalieri napoletani o spagnoli di uno o due nuovi seggi da edificarsi nel quartiere di S.Giacomo-via Toledo, oppure il ripristino del sedile di Forcella, ormai inglobato in quello di Montagna. Tale richiesta di incrementare il numero dei sedili fu giustificata, causa l’ampliamento urbanistico della città e crescita della popolazione;

3 - fu pure fatta domanda di aggregazione di tali cavalieri in quei seggi, ove risultava ridotto il numero delle famiglie. Tali rivendicazioni, formulate con lettera scritta, vennero anche sostenute da Gio. Donato Marra, D. Gio. d’Ayerbo, Berardino Rota, Camillo di Tocco. Costoro motivarono positivamente la presenza di nuove famiglie nobili in Napoli, in quanto tale ingresso avrebbe incrementato i pagamenti fiscali a favore della Regia Camera. Fu, così, annotato “ alli beni loro pagano etiam che venissero ad abitare in Napoli”, ai quali adempimenti fiscali fece seguito la possibilità di affittare le Dogane regie, quelle del sale e del vino.

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©Napoli, via Toledo - dipinto su volta ingresso palazzo d'epoca.

Del resto, in quel periodo le piazze avevano accresciuto i requisiti necessari alle aggregazioni, come testimoniato dal paragrafo XII, “Sull’ammissione dei Gentil’homini forestieri con rite-stile-consuetudine-capitali et osservanze”, dei Capitoli et Gratie, concesse alla città di Napoli dal re Filippo alla data del 25 gennaio 1557”, governando il viceré D. Federico Alvarez de Toledo. A quest’epoca appartiene la legge del 9 ottobre 1581 con la quale si stabilì che nelle aggregazioni ai sedili non si doveva tener conto delle ricognizioni o rinunce fatte a favore “de’ pretensori”. Lo stesso sovrano impose, poi, l’obbligo dell’assenso reale su qualsiasi aggregazione, azionando un sistema di controllo e monitoraggio sulla nobiltà cittadina, visti i vari tentativi insurrezionali di metà XVI secolo. Difatti, il 26 agosto 1581 fu decretato che le famiglie, richiedenti l’aggregazione o la reintegra ai seggi, dovevano ottenere prima la “cedola reale”, il permesso del sovrano ad aprire scrutinio, poi l’esito favorevole da parte dei sedili ed infine la ratifica del sovrano.
Circa i giudizi di reintegra erano discussi nelle due Ruote del Consiglio di S. Chiara, con la partecipazione di cinque giudici spagnoli e di almeno otto consiglieri del Consiglio Collaterale ed in presenza del Viceré.
Re Filippo II, con ordine sovrano del 27 maggio 1623 stabilì che anche il magistrato fiscale doveva intervenire in detti processi di giudizio, quale “parte formale” nelle sentenze definitive. L’ordine reale del 21 agosto 1643 fissò, poi, il Consiglio Collaterale, quale sede di verifica delle richieste di aggregazione/reintegra previa votazione e parere dei reggenti della Regia Cancelleria. Tale funzione giudicante ritornò alle due Ruote del Consiglio di S. Chiara o Regia Camera, con l’intervento di tutti i consiglieri capi di Ruota e del Regio Consiglio Collaterale ed in mancanza di uno dei consiglieri doveva intervenire il viceré o presidente del Consiglio (Ordine del 30 dicembre 1666). Il dispaccio successivo del 19 dicembre 1711 stabilì anche che le cause di reintegra dovevano essere trattate con tutte e quattro le Ruote del Sacro Regio Consiglio, nonché con i 24 consiglieri, il fiscale ed il voto del Regio Collaterale Consiglio ed il viceré, accettando così nel governo la funzione di verifica della legittimità nobiliare.

Infine, altro tentativo di riconoscimento vi fu nel 1697, allorquando le famiglie Aquino, Eboli, Filangeri, Gambacorta, Orsini, Franchi, Mendozza ed altre chiesero a re Filippo IV di “ergere un nuovo seggio” senza però ottenerne consenso, viste anche le vicende tumultuose del 1647. Del resto, in passato, c’erano state nuove aggregazioni, come nel 1503-1507, allorquando furono aggregati molti nobili e viceré, nonostante i seggi ottenessero che per l’ammissione necessitava il consenso unanime di tutti i componenti del seggio, nonché il rispetto delle regole-capitoli fissate dai seggi.
Il seggio di Capuana, ad esempio, fu il primo sedile ad adottare nel 1500 la già menzionata regola di ammissione di nuove famiglie con i quattro quarti “di nome, e d’armi”, come quella dell’imparentamento alle famiglie nobili residenti.

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© Napoli - particolare di una delle sale della Regia Camera 

Anche il seggio di Nido (oltre ai capitoli del 1500, 1507 e 1524), in data 22 aprile 1562, fissò che la domanda di aggregazione di nuove famiglie doveva svolgersi “per scritture pubbliche ed autentiche”, portando come prove di nobiltà “li quattro quarti, videlicet, lo quarto del padre e de la madre del padre; lo quarto de la madre de lo pretendente, e de la madre di sua madre, che siano nobili anticamente”.
Il processo di verifica durava circa un anno, come da antiche consuetudini che “dal tempo che furo deputati li seggi che non ave memoria d’uomo in contrario, sono stati e sono, che quando uno vuole entrare e godere gli onori e prerogative d’alcuno seggio, lo dimanda per grazia a quello Seggio; e quando piace alli gentiluomini di esso seggio accettarlo, esaminando le qualità convenienti e spettanti alla nobiltà, è stato aggregato; e quando non piace alli gentiluomini del seggio, è stato repulsato: al che mai alcuno se ci è intromesso contro la volontà de’ Nobili”.

Il seggio di Montagna, che già dal 1420 disponeva di un regolamento, nel XVI secolo perfezionò detta normativa d’ammissione nel 1500.
Il diffondersi della pubblicazione dei Capitoli servì a controllare le candidature nobiliari, visto che l’aggregazione ad una piazza, comunque portava prestigio e potere, specie durante il viceregno spagnolo. Di fronte al consolidarsi di questi regolamenti restrittivi dei “seggi chiusi” (ove le aggregazioni necessitavano del gradimento o del veto della nobiltà già iscritta)
(58), si andò affermando una “nobiltà fuori seggio” non aggregata o riunita in collegi nobiliari civici dei seggi chiusi.
Dal decreto di Filippo II (1581) e da quello successivo del 18 marzo 1664, con i quali si accentrò nelle mani del sovrano il diritto decisorio di aggregazione e di reintegra di nuovi nobili nelle piazze napoletane e di quelle delle provincie, necessitò sempre l’autorizzazione reale per il seggio, alla quale seguiva conferma con i voti delle piazze. Si nominò anche una commissione di cinque consiglieri ed un fiscale in un seggio chiuso, onde sentenziare sulle istanze. Si portò, poi, il numero dei consiglieri a tredici, incluso il Presidente del Sacro Consiglio, con il compito di sentenziare sulle istanze giudiziarie di aggregazione e reintegrazione, già respinte dai seggi.
Inoltre, il 5 febbraio 1601 nella nomina della Deputazione della Real Cappella del Tesoro, vennero inseriti altri dodici membri presi dai seggi (due per seggio) con funzioni di protezione del relativo tesoro ivi raccolto.
I sedili, nel 1666, chiesero a re Carlo II di riottenere completa libertà di aggregazione, ma detto sovrano la negò con dispaccio del 30 dicembre del medesimo anno, confermando il diritto reale. Il re, comunque, poteva ordinare “di motu proprio” l’aggregazione di una famiglia al seggio. Successivamente, nel 1688, il medesimo Carlo II fissò il divieto per i ministri e loro familiari, come per coloro i quali occupavano cariche pubbliche, nel richiedere l’aggregazione ad un seggio
(59). Nel 1684 lo stesso re Carlo II d’Asburgo decretò nuovamente la soppressione del sedile di Forcella, ormai fuso in quello di Montagna. Proprio in questo periodo numerosa nobiltà spagnola ebbe, comunque, facile accesso ai seggi partenopei.

E’ interessante l’elenco incluso in un manoscritto del 1693 per comprendere l’accresciuto numero di nuove famiglie napoletane, o forestiere, salite di lignaggio e desiderose di appartenere alle piazze. Le famiglie risultano: Ametrano, Anastasio, Angelis, Aquino, Cioffo Favilla, Maffeo,Viespolo, Zenaglios, Anna, Altomari, Benevento, Bracuto, Caputo, Cimino, Ardia, Campalo, Cordona, Fiorillo, Marciano, Pepe, Fulgore, Mirella, Vernassa, Pisano, Luongo, Pristalda, Palo, Petagna, Vargas, Raitan, Egittio, Valletta, Cito, Marano, Petroné, Vandain, De Luca, Valdetaro, Venuto, Staivano, Crasso, Apicella, Calà, Capobianco, Canaliero, Filippo, Ereitas, Gagliani, Garofalo, Giannattasio, Grimaldi di Benedetto, Grutter, Invino, Lucarelli, Mezzacapo, Miglioré, Natalé, Vidman, Nacarella, Ponte, Stefano, Salvo, Rovegno, Vaaz, Vignapia, Parise, Palma, Disanello, Sclano, Orefice.
Nel 1707, all’epoca della “congiura di Macchia” si rinviene altra notizia sulle piazze napoletane circa la contrattazione con il viceré spagnolo del loro donativo del due per cento sulle entrate feudali, burgensatiche ed ecclesiastiche della città e del regno in cambio:
1 - della possibilità di fare nuove iscrizioni ai seggi;

2 - della concessione dell’ufficio del Montiero maggiore e del titolo di “Grandi di Spagna” per il “Corpo della città”;

3 - della abolizione della ruota del Cedolario, come da richiesta del “Corpo del baronaggio”, per allentare il pesante regime fiscale gravante, circa 29 mila ducati a favore del Fisco nel 1704;

4 - della estensione della successione feudale al quinto grado dei collaterali, come richiesto dal “Corpo del Baronaggio”.
Tali richieste furono accolte dalla Spagna, solo in parte e con grosse limitazioni. Molte famiglie dei seggi nobiliari decisero, pertanto, di appoggiare la spedizione di occupazione del regno da parte dell’Austria, a patto della concessione dei suddetti privilegi da parte dell’imperatore. 
 

 L’epoca  borbonica  


Con l’avvento della dinastia dei Borbone, la struttura amministrativa cittadina inizialmente non fu variata. I seggi accolsero re Carlo di Borbone, il quale invitò gli eletti a proporre l’abolizione di alcune imposte. Le piazze, però, non intesero accettare l’invito, in segno di gratitudine verso la nuova regnanza. Inoltre, i medesimi sedili raccolsero un donativo di circa un milione di ducati, quale contributo cittadino alla successiva spedizione di Sicilia del sovrano Borbone. L’impresa siciliana si attuò dopo il giuramento di re Carlo, dinanzi agli eletti della città.

Durante la regnanza borbonica, la legislazione sulle piazza e sua nobiltà fu molto variegata e ricca di precisazioni. Le principali leggi emanate furono:
L.del 15 giugno 1742 (i discendenti di famiglie un tempo ascritte potevano chiedere giudizio di reintegra “se da cento anni prima dell’introduzione del giudizio” già godevano degli “onori del Sedile”); L. del 25 luglio 1749 (fu prescritta l’aggregazione ai sedili per quelle famiglie che nell’arco di un secolo non avevano più rivendicato i diritti di reintegra ai rispettivi seggi, tanto da considerarle “estinti, perenti e prescritti in tutto e per tutto”); L. del 25 gennaio 1756; L. del 19 febbraio/ 3 dicembre 1757 e L. del 19 gennaio 1758 (l’aggregazione ai sedili non produceva nobiltà se mancava il regio assenso, con conferma nella L. del 27 ottobre 1798); L.del 9 luglio 1757 (l’aggregazione doveva essere votata a scrutinio segreto nell’ambito dell’assemblea di tutti i rappresentanti del sedile); L. del 27 agosto 1757 (divieto a tutti i membri delle piazze di pretendere e ricevere soldi per l’aggregazione); L. del 1 giugno 1759; L. del 20 giugno 1763; L. del 1 dicembre 1770; L. del 18 febbraio 1771 (conferma la non prescrizione dei diritti di rivendicazione dei gradi di nobiltà agli eredi di antiche famiglie); L. del 27 novembre 1780; L. 12 settembre 1800 come le L. del 13 aprile e 6 ottobre 1851 (già con L. del 21 gennaio 1746, si fissa il pagamento dei diritti fiscali sia per aggregazioni che per reintegre al sedile). Infine, si annoverano i reali rescritti e dispacci.
Il R.D. del 1 agosto 1738, re Carlo di Borbone fissò che le cause di reintegra dovevano essere trattate davanti ai 4 capi di Ruota della Camera di S. Chiara, al fiscale ed al Sacro Consiglio a Due Ruote giunte. Il successivo R.D. del 11 maggio 1739 ordinò che dette cause dovevano trattarsi presso il Sacro Consiglio a Due Ruote giunte, con i 13 ministri tra cui il presidente e i capi di Ruota della Camera di S. Chiara. A seguito delle continue proteste (in particolare quella del 1746) dei sedili per abusi e raggiri dei tanti aspiranti nobili, che spesso si rivolgevano alla Camera di S. Chiara per ottenere i richiesti riconoscimenti, furono emessi diversi e più specifici dispacci finalizzati a migliorare tali controlli.

Così fecero seguito:

R.D. del 16 ottobre 1743 ed 8 agosto 1761 (il Sacro Regio Consiglio si occupa definitivamente dei giudizi di nobiltà); R.D. del 2 settembre 1748 (conferma del divieto del 1688 per i ministri e loro familiari di intentare giudizi di reintegra o votare in simili cause); R.D. del 30 aprile 1754 (la Camera di S. Chiara svolge funzione di supervisore sui giudizi); R.D. del 20 giugno 1763,del 6 aprile 1772, del 28 marzo 1779 (la Camera di S. Chiara si specializza nelle aggregazioni e reintegre dei nobili ai sedili e delle autorizzazioni per il “Cordon dei cadetti”); R.D. del 20 maggio e 17 agosto 1851.

Nel 1799 la Repubblica Napoletana, subentrata per un periodo breve a tale regnanza, sciolse i sedili, perché ritenuti dalla borghesia retaggio di soli privilegi aristocratici, tanto da garantire alla stessa il libero accesso all’amministrazione cittadina. Decaddero, così, tutte le leggi, decreti ed ordini sulla nobiltà.

Con il ritorno del legittimo sovrano al trono di Napoli, Ferdinando I intese mantenere questa delibera giacobina (legge del 1799), autorizzando l’editto reale del 25 aprile/ottobre 1800, che sciolse il corpo municipale cittadino con le sue rappresentanze familiari, causa il tradimento di molti loro esponenti complici dei francesi. Seguì l’istituzione del “Supremo Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno” e venne fissata la compilazione di quattro registri per la registrazione delle famiglie nobili nel regno:

a. Libro d’Oro per le famiglie ascritte ai cinque sedili;

b. Libro delle famiglie feudatarie da più di duecento anni;

c. Libro delle famiglie investite dall’abito di giustizia dell’Ordine di Malta;

d. Libro dei sedili chiusi del Regno.

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La legge del 2 agosto 1806 sulla successione dei titoli precisò, poi, che i titoli di principe, duca, conte e marchese, concessi legittimamente, dovevano restare ai rispettivi possessori per essere trasmessi ai diretti discendenti “in perpetuo”, con ordine di primogenitura e nella linea collaterale fino al quarto grado. Fu anche emessa legge, “Notamento delle diverse autorità ed ordine col quale si procede ne’ solenni baciamano, nel reame delle Due Sicilie”, per la quale i cavalieri di Ordini cavallereschi nazionali potevano aspirare alla “nobiltà generosa” trasmettibile. I sedili vennero soppressi definitivamente dalla regnanza duosiciliana, perché sospetti di aver favorito la diffusione delle idee rivoluzionarie. Seguì altro editto del 8 agosto 1806 con il quale gli eletti di S. Lorenzo divennero corpo cittadino. Il 22 ottobre 1808 sorse, quindi, il municipio, il cui primo sindaco fu eletto a Napoli il 2 dicembre dello stesso anno.
Seguì la legge del 10 dicembre 1812 con la quale fu sostituito il Supremo Tribunale con il “Consiglio dei Maioraschi”, rimpiazzato poi dal Ministero e Real Segreteria di Stato di Casa Reale, a sua volta cambiato con il Ministero e Real Segreteria di Stato di Grazia e Giustizia
Si continuò a legiferare nel regno delle Due Sicilie sulla nobiltà e seggi in data 7 settembre 1839 e 7 ottobre 1840. Queste leggi dichiararono la sospensione dell’iscrizione di nuove famiglie al Libro d’Oro fino a nuove disposizioni reali.

Infine, fu nominata con legge del 23 marzo 1832 la “Real Commissione dei titoli di Nobiltà”, che cessò di operare con il decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861, sotto dittatura garibaldina. L’istituto della Consulta Araldica, avviato con legge del 10 ottobre 1869, del nascente regno d’Italia fu, quindi, autorizzato a trattare questioni nobiliari sul territorio nazionale.
Tra gli ultimi atti legislativi della dinastia Borbone vi furono il R.D. del 1845, che confermò l’abolizione dei seggi nel Regno, la legge del 20 maggio e 17 agosto 1851 (riprendeva la L. del 25 gennaio 1756) che dichiarò l’aggregazione ai sedili costituire per gli ascritti requisito di riconoscimento della sola “nobiltà generosa”.
 

3. L’organizzazione dei sedili

Il reticolo urbanistico dei sedili


Dal periodo della regnanza normanna a quella angioina con la sua riforma, il numero dei seggi era così composto:

1 - 4 Seggi Maggiori, corrispondenti topograficamente ai 4 quartieri più antichi della città di Napoli

2 - 25 Seggi Minori all’interno di quelli Maggiori. Questi sedili si suddividevano, a sua volta, in:

A) Ottine per il popolo;               B) Tocchi o Tocci per la nobiltà.

Molti di questi seggi minori presero il nome dalla famiglia nobile più potente ivi residente, nonché dalla chiesa presente nel quartiere, come dal luogo stesso. Tale moltitudine di seggi, distribuita su tutta la città in forma di maglia reticolare, garantiva un più funzionale decentramento dell’ordinamento amministrativo ed una maggiore autonomia governativa sulle decisioni territoriali. Ciò è documentato sia dalla lettera di S. Gregorio Magno ai napoletani, sia dalla scrittura d’immunità concessa da re Tancredi agli amalfitani (1190).

Simile modello di organizzazione amministrativa si diffuse anche in altre città regie del Mezzogiorno, quali ad esempio Aquila, Lucera, Sorrento, Trani e Cosenza, seppur anche nelle città demaniali si formarono aggregazioni nobiliari.

Dalla riforma di re Roberto d’Angiò (metà XIII sec.), il numero dei seggi scese a cinque e successivamente a sei, includendo quello di Popolo, restando invariato fino all’epoca della loro abolizione nel XIX secolo.
 

La struttura del seggio


Il seggio, oltre ad essere formato spesso da un edificio a pianta quadrata
con una piccola sala per riunioni ristrette, aveva anche un locale adibito a sala per le assemblee, ove si riunivano i vari delegati iscritti delle aree rionali dei quartieri. Tali delegati erano scelti dagli iscritti al seggio che si chiamavano “cavalieri di seggio”,  mentre le consorti erano dette “dame di piazza”. Costoro provvedevano, in assemblea, alla nomina annuale dei rappresentanti di seggio, chiamati “consoli” nel basso medioevo e poi eletti ( sei deputati per ogni seggio, cinque eletti per quello di Nido, per un totale di ventinove rappresentanti con età superiore a ventuno anni) “pel mandato che ricevevano di elezione dal rispettivo seggio”.
Gli eletti erano rappresentanti delle principali famiglie aristocratiche, residenti nell’area, preposti ad occuparsi dei pubblici affari.
Costoro si radunavano periodicamente nel sedile per discutere in pubblico dibattito di varie problematiche cittadine, per le quali faceva seguito una specifica delibera. Questi esponenti, comunque, appartenevano a famiglie che erano, a detta dell’Ammirato, “un’ordine di discendenza, la quale trahendo una persona principio, e ne’ figliuoli, e da’ figliuoli a nipoti, e così per conseguente da’ nipoti a pronipoti ampliandosi”.
Gli eletti, su scelta del seggio, potevano recarsi a corte per riferire al sovrano quanto era stato deliberato dall’assemblea della piazza. Gli eletti, inoltre, avevano diritto di sedere nel Collaterale e precedevano negli onori i feudatari ed i supremi ufficiali del regno in tutte le solennità. Venivano consultati periodicamente dai sovrani, quando doveva essere promulgata una legge, rappresentando così un prezioso organo di rappresentanza cittadina, atto a scongiurare eccessive politiche fiscali.
Gli eletti dei sedili, con i feudatari del regno (principi, duchi, marchesi, conti, baroni) nonché con i sindaci, formavano il
parlamento dei deputati della città di Napoli, che deliberava su numerose e variegate iniziative (donazioni alla corona: quelle del 1507-1520-1523-1524, la difesa militare, le campagne di guerra, accordi economici-commerciali etc).
Esisteva, poi, un parlamento generale che riuniva esclusivamente i baroni del Regno delle varie province per decisioni urgenti ed importanti sulla sicurezza dello stato o sulla raccolta della regalia reale
(60).
L’ascrizione al seggio di nuove famiglie avveniva per il tramite di una commissione giudicante interna (poi sostituita nel tempo da altri organi), atta ad esaminare tutte le prove nobiliari (il vivere “more nobilium”), e si formalizzava attraverso una cerimonia con regole fissate dai capitoli del seggio. Tra le antiche prerogative, sull’esempio dei Tebani, si diffuse quella di ammettere tra la nobiltà “que’ del popolo, ch’eran ascesi a gradi di ricchezze, e quegli ancora che per lungo tempo erano nobilmente vissuti, ed avevano lasciato il mercantare, ed altri simili mestieri, o che per lungo tempo erano vissuti con arme e cavalli”. Si giunse, poi, ad aggregare sulla base del solo principio del “vivere nobilmente”, sia nel caso di “cittadini come forestieri”, nonché in base al contrarre “parentela co’ Nobili” o al vivere in un quartiere del seggio.
Il Mazzella, invece, ha evidenziato nella sua opera che taluni requisiti richiesti per appartenere alle classi nobili dovevano essere:

1.- “l’antichità”, cioè il “contar molti gradi, o come dir si debbia molte generationi, o’ ver molte età”;

2.- “lo splendore”, cioè “honori e dignità avute…baronaggi e titoli..le lettere, il valor militare, la fede, la liberalità, e la giustizia, e soprattutto la santità, la patria”.
E’ da evidenziare che i sedili, seppur erano autorizzati a questionare con controlli sui requisiti necessari al patriziato, non entrarono mai in merito nelle controversie sui diritti successori al titolo tra gli eredi. Taluni seggi, come Nido e Capuana, giunsero, invece, ad espellere quei personaggi ritenuti non più degni di appartenere alla piazza, a causa di un loro comportamento nefasto o per fatti incresciosi. Re Filippo II  stabilì, come già detto, che l’aggregazione di una famiglia al seggio doveva ottenere la nomina regia. Difatti, sotto tale sovrano fu respinta la richiesta del menzionato gruppo di nobili di aprire le “piazze” ad altre famiglie, aumentandone il numero.
Il viceré di Napoli, don Giovanni Mariquez de Lara, giustificò il sovrano rifiuto con l’aver voluto evitare un contrasto tra la nobiltà di Piazza e la nobiltà fuori Piazza o extra sedile.
Tale diniego reale intese non modificare l’organizzazione dell’antico governo cittadino, nonostante l’espansione della città di Napoli con suo modificato assetto urbanistico e consequenziale crescita degli abitanti, nonché la riduzione del numero degli esponenti di alcuni seggi (Porto e Montagna) a causa dell’estinzione di talune famiglie ascritte.
In sintesi fu preclusa, alla più recente nobiltà ed al ceto borghese, la possibilità di entrare a far parte del governo amministrativo, rappresentando, inoltre, un primo tentativo palese della monarchia di indebolire il governo dei sedili, garante dell’antico sistema oligarchico aristocratico. Del resto, i sovrani ed i viceré, videro nei sedili, per la loro forza sociale e politica, la costante minaccia degli equilibri governativi all’interno della città e del regno. Ciò spiega, difatti, i divieti imposti nel corso dei secoli alle piazze a riunirsi in assemblee, senza autorizzazione reale giustificatrice. Qualora il governo reale veniva a conoscenza di iniziative del genere da parte dei sedili, provvedeva allo scioglimento delle adunate con l’uso della forza.

Era, anche, norma che per ogni seggio si scegliesse un eletto tra i sei nominati, (per un totale di sei per le piazze nobili, che si appellavano “capitani dei nobili”, ed uno per il Popolo, detto “capitano di strada Popolare”), con mandato annuale, ai quali si affidavano le chiavi di ogni porta cittadina , una copia ai capitani ed altra all’eletto del Popolo.
Nel marzo del 1655, ad esempio, erano : Nido (Pompeo Pignatello di Montecalvo), Montagna (Antonio Muscettola), Portauova (Andrea Capuano), Porto (Luise Macedonio), Capuana (Filippo Capecelatro)
. Costoro, inoltre, sotto la presidenza di un magistrato di nomina regia (“Grassiere”)(61) designavano i magistrati del Tribunale di S. Lorenzo Maggiore, chiamati ad adempiere a talune funzioni governative della città (magistratura municipale). Tali rappresentanti si riunivano nella sala del Capitolo del convento omonimo, sede del Tribunale. Il Consiglio del Tribunale, formato dagli eletti, durava in carico un anno e prendeva le decisioni sulle necessità dell’amministrazione della città, oltre a rilasciare attestati di nobiltà ad esponenti della nobiltà “extra sedilia”.
Il Tribunale di San Lorenzo costituì speciali “deputazioni” per favorire la normale amministrazione. Le deputazioni erano nove con precise mansioni:

a) Prima Deputazione (Pecunia) si occupava della gestione del patrimonio cittadino: tasse e pratiche fiscali. L’esattoria delle gabelle era affidata ad un esponente di famiglia ricca. Per la consuetudine di affidare tale servizio, diretto da un “Portolano”, a personaggi della famiglia Moccia, nel tempo si diffuse la costumanza popolare di indicare con il termine “moccia” qualsiasi tipo di esazione materiale.

b) Seconda Deputazione svolgeva funzione di controllo e revisione sull’amministrazione cittadina.

c) Terza Deputazione (Fortificazioni) era preposta al mantenimento delle opere di fortificazione cittadina.

d) Quarta Deputazione (Mattonato/Fortificazioni/Acqua) si occupava della fortificazione interna, dell’approvvigionamento idrico, dei fabbricati edili e manutenzione delle strade. Tale deputazione, formata dai vari rappresentanti di seggio (ad esempio D. Francesco Capuano fu deputato nel 1741 per il seggio di Portanova, come lo fu il di lui figlio Gio. Battista nel 1767 e 1773 ), si interessò spesso della confacente sistemazione urbanistica. Tra gli ultimi piani di sviluppo urbanistico è noto quello ben articolato del 1789 di Vincenzo Ruffo, approvato dal Tribunale di S. Lorenzo. Circa i compiti di manutenzione delle strade cittadine, si ricorda che queste nel ‘500 erano pavimentate con grossi mattoni di argilla, cotti nell’isola di Ischia. Successivamente, tale pavimentazione fu sostituita con ciotoli di fiume, “alla romana”. Nel ‘600, infine, si utilizzarono grosse squadrature rettangolari di selce o piperno (“valovo” o basolo).

e) Quinta Deputazione (Capitoli) si occupava della conservazione dei capitoli, con privilegi e garanzie concessi alla città e regno, nonché della rispettiva attuazione. Si aggiunse alla deputazione quella dei “pregiudizi” con compiti di nomina del primo ambasciatore alla corte di Madrid, onde denunciare eventuale soprusi contro la città. Tale Deputazione fu spesso contrastata dal viceré con l’appoggio del popolo per timore di una perdita di potere.

f) Sesta Deputazione (Monasteri) si occupava dei rapporti con i monasteri, curando contatti e giurisdizione. Quando tale funzione fu assolta dal re, la deputazione fu soppressa.

g) Settima Deputazione tutelava con una continua opera di vigilanza il privilegio (concesso da Papa Paolo III ed imperatore Carlo V) di non far entrare in Napoli la Santa Inquisizione. Sorse in conseguenza dei citati tentativi di introdurre detto tribunale a Napoli ad opera di vari Vicere’, a cominciare da Raimondo di Cardona, che autorizzò nel 1509 l’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione, generando un immediato tumulto popolare durato quasi undici anni.

h) Ottava Deputazione si occupava della zecca formata da ventitré membri, che si recavano alla zecca quando necessitava mettere in circolazione nuove monete. Fu abolita ed inglobata dalla Regia Camera della Sommaria.
i)
Nona Deputazione si occupava della gestione delle riserve di olio, presso i depositi (cisterne), necessarie nei periodi di occupazione. Era formata da un deputato per ogni seggio per meglio gestire l’annona olearia. Per tale attività i banchi cittadini mettevano a disposizioni un capitale di 4000 ducati  che venivano restituiti. Commercianti e bottegai d’olio erano obbligati a comprare l’olio dalla Deputazione. Questa fu abolita dopo i tumulti per l’Inquisizione perché l’annona dell’olio e del grano dovevano essere sotto il controllo diretto del viceré. Fu, poi, il viceré conte Olivares che fece approvare l’istituzione del Tribunale dell’Annona e costruire nel 1596 un edificio-magazzino per le farine nella strada del molo Piccolo, su progetto dell’architetto Domenico Fontana. Altro edificio fu costruito nei pressi di Port’Alba, vicino alle mura angioine. Fu chiamato dal popolo “
o fosse u ggrano “ per la presenza di tanti fossi serbatoi di contenimento del grano.
Tra le Deputazioni straordinarie si aggiunse quella “per la peste” del 1656, detta, poi “della Salute”. Circa quest’ultima Deputazione le cronache hanno scritto: “questo tribunale della Deputazione si tiene ogni giorno, cossì la matina come il doppopranzo, nella Doana della Farina vicino al Molo, e li Deputati sono trentasei, cioè sei per ogni piazza, inclusavi quella del Popolo”.
A gennaio del 1691 i deputati erano: Nido (A. Carafa, G. B. Galluccio, G. Pignatelli, L. Riccio, L. Capece, G. Dentice), Montagna (P. Russo, G. Sanfelice, G. Cicinello, C. Carmignano, R. Coppola), Portanuova (A. de Ponte, N. Mormile, F. di Liguoro, V. Capoano, P. Moccia), Porto (N.
Arcamone, C. Ruffo, C. Strambone, F. di Gennaro, F. di Dura), Capuana (A. Capecelatro, M. Filomarino, F. Guindazzo), Popolo (G. A. Vitagliano, D. Longo, A. del Tufo, P. Vitolo, L. Frabicatore, S. di Franco). Inoltre, tra i medici addetti alle visite vi fù il famoso Marco Aurelio Severino.

Il Tribunale di S. Lorenzo si occupava di varie corporazioni, quale quella dell’Arte della Lana, molto potente e collegata allo sviluppo di allevamenti locali.


Le funzioni socio-amministrative del seggio e suoi rappresentanti


Le questioni trattate dai delegati presso il sedile erano di natura privata e pubblica. Le competenze attribuite ai sedili riguardavano la gestione fiscale della “annona”, le cariche pubbliche, porti e torri (specie in epoca angioina). I seggi svolsero, in definitiva, una vera e propria attività civica con vere funzioni di governo (giudiziarie, giuridiche, militari, religiose) estese anche al reame. L’insieme dei sedili, difatti, rappresentava il Comune.
Tra le specifiche competenze si annoverano:

1. Le piazze badavano all’ordinamento edilizio e tutela della pubblica salute. Si occupavano della sorveglianza, nonché delle acque oltre ad assistere al conio della moneta, controllandone il valore nominale.

2. I seggi, inoltre, concedevano lettere di cittadinanza ed  autorizzavano patenti di nobiltà, tramite il Tribunale di San Lorenzo, a tutta l’aristocrazia del Regno. Il sedile di Portanuova elargiva anche riconoscimenti governativi, come promozioni agli Ordini cavallereschi dell’Agata e Leonza.

3. Tra i compiti svolti vi fu anche quello di fissare norme contrattuali matrimoniali (capitoli), con le quali salvaguardare le doti di “paraggio” di donne morte senza figli, facendole ritornare alla famiglia di origine.

4. I sedili si occuparono anche della vita morale, della tutela dei costumi e tradizioni delle famiglie ivi residenti. Controllavano il rispetto del culto religioso [In difesa delle tradizioni religiose locali, si ricorda che i rappresentanti della nobiltà di sedile si schierarono contro il viceré D. Pietro de Toledo, il quale nel 1547 tentò di introdurre a Napoli l’Ufficio della Santa Inquisizione. Il 16 maggio scoppiarono i già menzionati tumulti contro gli spagnoli, capeggiati da Cesare Mormile (Portauova), Gio. Francesco Caracciolo, Giovanni Sessa e Ferrante Carafa, con l’astensione dell’eletto del Popolo, Domenico Terracina. Furono inviati, anche, degli ambasciatori (Placido di Sangro, Ferrante Sanseverino) ed il viceré Toledo reagì ordinando la sgozzatura di tre giovani nobili (Fabrizio d’Alessandro, Antonio Villamarino, Gian Luigi Sorrentino), che avevano fatto scappare un prigioniero dai birri). I seggi di Nido e Capuana, ad esempio, contribuivano alla raccolta delle collette e donativi, tramite propri esattori, partecipando all’amministrazione finanziaria fino all’epoca di Carlo II.

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© Napoli – una delle tanti torri che circondavano la città

5. Spettava al seggio anche il controllo e la garanzia dell’ordine cittadino, nonché la pace nazionale tra le varie fazioni dinastiche o politiche. Per adempiere a tale funzione si avvaleva della menzionata “Giunta del buongoverno” o “Otto del buono Stato”.
6.
I seggi si occuparono anche della difesa delle torri e porte cittadine, vista la loro ubicazione nei pressi di queste strutture. Tra l’altro, “creavano i capitani a guerra…e convocavano la soldatesca”.
Napoli era circondata da mura solide e alte, tanto è vero che lo storico Tito Livio scrisse che "lo stesso Annibale la prima volta che strinse d'assedio la città, si spaventò all'aspetto di quello; ed alla pronta difesa degli assediati, dovette ritirare le armi."
Nelle occasioni solenni, come l’arrivo di un sovrano a Napoli,  il Seggio del Popolo era rappresentato da un nobile scelto dal popolo.

Nel 1703 fu eletto rappresentante del fedelissimo popolo Don Francesco d'Anna, duca di Castelgrandine, per accogliere re Filippo V di Spagna.
7.
I sedili nobili, eleggevano a turno, poi, la prima dignità cittadina, il sindaco di Napoli, cui spettava il diritto di rappresentanza della città di Napoli e del baronaggio del regno nei parlamenti generali. Costui precedeva con gli eletti tutti i dignitari e partecipava alle grandi pubbliche solennità e parate, seppur la carica rimase di onorificenza.
Il sindaco, tra l’altro, si eleggeva in occasione dei raduni dei pubblici parlamenti, ove intermediava le proposte del re con i parei dei seggi, nonché controllava le “procure fatte da quelli, che sono assenti”. L’elezione del sindaco poteva anche avvenire in concomitanza della salita al trono di un nuovo Re, “e quando si celebrano le esequie per gl’istessi, o quando prendono moglie, e nascono loro figlioli maschi, e femmine primogenite, nella venuta de’ nuovi Viceré”.
Il sindaco aveva un posto riservato accanto al re “o di colui, che il Re rappresenta”.  

8. I sei eletti, compreso il deputato del seggio di Forcella già incorporato (settemviri), nonché l’eletto del seggio di Popolo (dal 1495), oltre alla presidenza del Grassiere o prefetto dell’Annona formavano il governo comunale, rispondendo alle accennate funzioni amministrative, quali:

a) gestione fiscale dell’annona e grascia (cioè del valore delle derrate e sue modalità di vendita);

b) nomina dei giudici della Vicaria;

c) nomina dei Tavolari, periti agrari ed urbani;

d) nomina del Giustiziere e Portolano con concessione regia di Filippo IV (1635).Circa la prima nomina, trattavasi di carica importante per le mansioni espletate come da sentenza del Collaterale del 3 marzo 1510, quali l’amministrazione e rispetto della legge contro le frodi alimentari, il controllo nei quartieri sia per le questioni civili che criminali. La durata di tale carica era mensile e veniva coperta a rotazione dagli eletti del Tribunale di S. Lorenzo.
La carica di Portolano era quella di un magistrato con compiti di sorveglianza sulle nuove costruzioni nella città, nonché gestiva i permessi per edificare. Infine, gli eletti davano esecuzione degli editti municipali e degli statuti presenti nelle prammatiche.

9. I seggi nella loro giurisdizione provvedevano ai fabbisogni particolari dei cittadini e dei quartieri. Presero cura dello sviluppo ed incoraggiamento degli studi letterari e poetici come nel caso della nascita dell’Accademia degli Oziosi, erede dell’antica accademia aragonese.

10. Nei seggi venivano edificate delle piccole “cappelle” (originate nelle Fratrie), dette “Staurite”(dal greco stauros ), dedicate alla Santa Croce. Tali aree sacre aumentarono nel tempo per uso delle processioni parrocchiali e furono di proprietà dei patronati aristocratici. Difatti, per la domenica delle Palme, dopo la benedizione, era tradizione nei sedili organizzare una processione che dalle chiese parrocchiali partiva ed attraversava tutto il quartiere con gli “stauritari” attivi nel raccogliere le elemosine. La processione faceva sosta presso un altare con sua croce ornata di palme. In tali luoghi, nel corso del tempo, si edificarono le cappelle. L’attività delle Staurite consisteva nell’adorazione, fare opere di pietà, assistenza ai fanciulli abbandonati o vedove, agli infermi e carcerati. Erano dedicate ad un Santo Protettore e si specializzarono nella sepoltura dei morti, creando nei sotterranei sottostanti dei cimiteri, detti “terre sante”.  I fratelli di quel rione o quartiere ricevevano degna sepoltura con l’uso dell’interro, esumazione e sistemazione definitiva nell’apogeo. Queste Staurite si trasformarono, poi, nelle confraternite o arciconfraternite, dedite al culto, beneficenza e sepoltura.
I nobili costituirono cinque arciconfraternite aristocratiche, quante erano i seggi:

a. Nobile Compagnia ed Arciangustissima Reale Arciconfraternita dell’Immacolata concezione purità di Maria dei nobili in Montecalvario

b. Nobile Compagnia e Reale Arciconfraternita, Chiesa ed Ospedale di Santa Maria della Misericordia fuori porta S.Gennaro (“Misericordiella”)

c. l’Augustissima Compagnia della Disciplina della Santa Croce

d. Real Arciconfraternita di Nostra Signora dei Sette dolori in San Ferdinando di Palazzo

e. Real Compagnia ed Arciconfraternita dei Bianchi dello Spirito Santo

Le assemblee delle Staurite   erano frequentate sia da patrizi cittadini che dai feudatari.

Circa il culto dei Santi, i rappresentanti dei seggi avevano diritti decisori, come avvenne per la votazione del 26 maggio 1628 presso il Tribunale di S. Lorenzo, relativamente ai Santi protettori del regno, compreso S. Gennaro.

11. I seggi, infine, avevano il diritto di nominare i “maestri razionali”, cioè magistrati fiscali, fino all’epoca di re Ladislao. Questi formavano una “curia” preposta al controllo dei conti fiscali, oltre alla direzione e sorveglianza della coniazione delle monete, nonché le locazioni, appalti sui dazi e gabelle.

E’ annotato, tra l’altro, dal Summonte che molti “Gentiluomini di tutti i seggi Napoletani”, nonché altri insigniti “del cingolo militare, ordine allora il più riputato di Cavalleria”, appartennero alla classe dei notai.
 

La  blasonatura  dei  seggi


Ogni piazza si distingueva, anche, per l’utilizzo di specifiche “arme blasonate”, che spesso furono collegate alla storia del quartiere e sue caratteristiche urbane. Scrive il Torelli che tali armi “si sono aggiunte secondo le convenevolezze di essi, i Sostegni, e i Mantenitori, che i latini chiamano Telamones, e Atlantes, intendendo per sostegni, secondo le regole de gli Armeresti, le Fere, e gl’altri animali strani, e per mantenitori, tutto ciò che ha sembianza humana, come sono i Puttini, e le Ninfe”.

4. I seggi

Il seggio di Capuana

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© Napoli - stemma del Sedile di Capuana


Era opinione comune che prese il nome dalla porta da cui si dipartiva la strada che portava a Capua; studi recenti hanno accertato che detta strada  non conduceva a Capua e, pertanto, questo nome è dovuto alla presenza della potente famiglia Capuano.
 
La sede di questo seggio principale rimase nei pressi della Porta omonima dal 1488, anno della costruzione della nuova porta per volontà di Ferrante I d’Aragona. Con questo progetto, detto sovrano intese celebrare la sua incoronazione al trono di Napoli e la sconfitta dei baroni ribelli. Su questa porta, poi, e sulle altre della città, gli eletti decisero, in occasione della temuta pestilenza (30 ottobre 1656), di far dipingere dall’artista Mattia Preti un’edicola votiva alla SS. Vergine protettrice, ai Santi Gennaro, Arcangelo e Rocco.

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© Napoli - Porta Capuana


Tale sedile risulta essere fondato nel 1251 ed ingrandito nel 1453 con l’acquisto delle case di Matteo Filomarino e Petrillo Cossa. I suoi capitoli furono redatti il 22 settembre 1500. Nei Capitoli si fissarono le norme sulle aggregazioni al seggio:

1 - necessava essere nobili con i quattro quarti “di nome e d’arme”con avi paterni e materni nobili

2 - essere nato legittimamente da nobili o da persone imparentate

3 - non essere condannato “d’alcun vizio che offender potesse la Nobiltà”, tanto da rischiare anche l’espulsione, a riconoscimento avvenuto.
Questo modello di regolamento fu ripreso da altri sedili.

Prese come Santo protettore il Santo Martino, barone e vescovo di Tours, che dette poi il nome al seggio minore, soppresso con la riforma angioina. Presentava, inoltre:

1- Arma del seggio: era formata da un cavallo frenato d’oro in campo azzurro/rosso. Secondo Giovanni Villani detta immagine si ispirava ad un’antica statua in bronzo di un cavallo famoso, già insegna della città di Napoli, che fu distrutta dai “miniscalchi” di Napoli per costruirci le campane della “maiore Ecclesia” nel 1332. Secondo il Mazzella, inoltre, tale statua sarebbe stata modificata ai tempi della conquista di Napoli da parte dell’imperatore Corrado (1253). La statua del cavallo, che stava dinanzi alla chiesa Maggiore a “dimostrare la libertà della città”, venne così trasformata per volere del suddetto re che vi fece scolpire le redini, simbolo di remissione.
Re Carlo I volle per quest’arma far scrivere i seguenti versi: “HACTENUS EFFRENUS DOMINI, NUNC PARET HABENIS, REX DOMAT HUNC AEQUUS, PARTHENOPENSIS EQUUM”, ad indicare che un re giusto è capace di domare un cavallo sfrenato. Infine, il menzionato Torelli completa la descrizione dell’arma, aggiungendo “lo scudo timbrato di corona colla divisa, e i pennoncelli, come di sopra, i sostegni sono due cavalli frenati d’oro divisi d’argento”.
2 - I seggi minori erano:
Seggio dei Melari o Melazzi, dal nome della famiglia nobile fondatrice;
Seggio di S. Stefano, così chiamato per la vicina chiesa omonima;

Seggio dei Santi Apostoli, per la chiesa omonima che era ubicata alle spalle del palazzo di Somma;

Seggio di S. Martino, dal nome della vicina chiesa che aveva per arme il Santo a cavallo che strappa il proprio mantello con un povero mendicante, sul retro vi era l’ospedale della Pace. Tale seggio minore era, già, menzionato nell’atto del 1196 tra il sig. Capece Scondito e la badessa Rumbe del monastero di S.Maria d’Agone;

Stemma Sedile S. Martino

Stemma Sedile dei Manocci

Stemma Sedile S. Martino. A destra: stemma Sedile dei Manocci

Seggio dei Manocchi o Manocci, da un’antica famiglia ivi residente con arma d’argento alla fascia rossa con palma uscente.
Il seggio di Capuana risulterebbe, però inizialmente gestito da tre nuclei familiari, quali gli Aienti, i Caracciolo ed i Capece, che delimitavano tre quartieri.
L’elenco delle famiglie ascritte, secondo il Mazzella, alla data della pubblicazione della sua opera (1601) era così composto: Acciapaccio, Arcella, Aprano, Barrile, Bocca Pianoli, Buoncompagno, Bozzuta, Cantelmi, Capece, Caraccioli Svizzeri, Caraccioli Rossi, Carbone, Crispani, Coscia, Colonna, Dentici, di Forma, Galeota, Filomarino, Latri, Leonessa, Guindazzo, Lagni, Minutolo, Mariconda, Mendozza, Manselli, Marra, Morra, Orsina, Loffreda, Pandoni, Piscicella, Protonobilissimo, Seripanno, Scondito, Silva, di Somma, Tocco, Tomacello, Saracino, Zurlo.
A quella data i casati estinti erano: Acciaiolo, Aiello, Agala, Aquillio, Arbusto, dell’Aversana, Cataneo, Cassiano, Cappasanta, Comino, Franco, Gagliardo, De Insula, Mansella, Pesce, Procolo, Quaracello, Frangipane, Siginulfo, Tarcello, Varavallo, Virginio, Zamarella.
Il Torelli, invece, nella citata opera  “Lo splendore della Nobiltà napoletana”, edita nel 1678 mise in luce l’esistenza di una ripartizione di casati per quartiere, elencando le principali famiglie, ivi residenti.
Nel
quartiere degli Alienti avevano a quel tempo dimora:
Buoncompagno, Cantelmo, Crispano, Dentice, Filomarini, Guindazzi, Lagni, Leonessa, Loffredo, Maricondo, Marra, Morra, Orsino, Silva, Somma, Tocco.

Nel quartiere dei Capece vi erano: Capece, Galeota, Latro, Minutolo, Piscicelli, Sconditi, Tomacello, Zurlo.

Il quartiere dei Caracciolo ospitava: Caracciolo Rossi, Caracciolo Pisquizi o Sguizzeri

A distanza di quasi un secolo, il Capecelatro, nell’opera del 1769, elenca le seguenti famiglie, senza alcuna distinzione: Caraccioli Pisquizi, Caraccioli Rossi, Capeci, Capeci Aprani, Capeci Bozzuti, Capeci Galeoti, Capeci Minutoli, Capeci Piscicelli, Capeci Sconditi, Capeci Tomacelli, Capeci Zurli, Capeci Latri. Secondo detto autore, le famiglie aggiunte erano: Boccapianola, Brancia, Buoncompagni, Cantelmi, Colonna dei duchi di Zagarola, Crispani, Barrilli, Dentice del Pesce, Filomarini, di Forma, Guindazzi, di Lagni, della Leonessa, Loffredi, Mariconda, Marra, Mendozza del Principe di Melito, Morra, Orsini del duca di Bracciano, Seripandi, di Silva, di Somma, Tocco delle Onde, Franchi. Invece, le famiglie “spente”,  a quella data: Acciajoli, Acciapacci, Ajossa, Aquilio Arbusto, Arcella, Aversana, Barrese, Carbone, Catanei, Cappasanti, Guigliart, dell’Isola, Mansella, Mastaro, Pandoni, Pesce, Proculo, Siginolfo, Tortello, Varavalli, Buccasinghi, Persico.

Nel 1800 le famiglie ascritte del Libro d’Oro erano: Buoncompagno di Sora e Fiano, Capece Galeota, Capecelatro di Lucito-di Morrone-di Nevano-di Siano, Capece Minutolo di Canosa-di Ruoti-di S.Valentino, Capece Piscicelli, Capece Scondito, Capece Zurlo, Caracciolo di Avellino - di Brienza - di Forino - di Pannarano - di Roccaromana- di Torchiarolo - di Torella - di Vietri - di S.Vito- di Arena - di S. Buono - di Castagneta - di Castelluccia -di S. Eramo - del Gesso - di Grottaglie e Cursi - di Marano - di Martina - di Melissano - di Pettoranello - di Rodi - di Villamaina - di Venosa, Cattaneo di Sannicandro, Dentice, Evoli, Filangeri, Filomarino della Rocca - di Torre, Guindazzi, Leonessa, Lignì, Loffredo di Cardito - di Migliano, Mariconda, de Medici, Morra, Pescara, Revertera, Ruffo di Baranello - di Calabria - di Scilla, Tocco.

Il seggio di Forcella

Chiesa S. Agrippino
© Napoli - Quartiere Forcella - stemma del Sedile di Forcella - sec. XVI -


Il nome del sedile deriva, probabilmente, dalla presenza nel quartiere, ove era ubicato, delle forche di giustizia. Difatti, tali strumenti di punizione erano distribuiti nei pressi della piazza di Forcella, luogo, tra l’altro, noto con il nome “e cape a Vicaria”, in quanto si esponevano le teste recise dei giustiziati. Inoltre, nei pressi della piazza Mura Greche, per la presenza di ruderi di mura elleniche, sorgeva il “cippo a Forcella”, cioè il tronco ligneo delle esecuzioni e supplizi. Altra tesi storica fa, invece, derivare il nome dalla presenza della scuola di Pitagora, che usava come emblema la lettera biforcata (Y).

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© Napoli - Stemma Seggio di Forcella


© Napoli, Chiesa di Sant'Agrippino rifatta dai nobili del sedile di Forcella ai tempi di Carlo I d'Angiò

Porta d'ingresso della Chiesa di Sant'Agrippino con le insegne del Sedile e di Ferrante d'Aragona

Questo quartiere era, spesso, menzionato dagli storici come “regione erculense” per la presenza del tempio di Ercole, nonché “regione termense” per le antiche terme. Tale sedile presentava:

1 - Arma del seggio: era rappresentata da una pergola/forca a ipsilon (Y), in campo oro e rosso. Il motto,  Ad bene agendum nati sumus , era “Siamo nati per fare il bene”.

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2 - I seggi minori erano:

Seggio dei Cimbri, collocato lungo la strada ove risiedeva l’omonima famiglia. Aveva per arme tre frutti di noce, di cui due in capo ed uno in punta in campo d’argento, attraversato da fascia di verde. Nei pressi vi era la chiesa delle Crocelle;
Seggio dei Pistesi/Pistaso, era situato nei pressi della chiesa di S. Nicola.
Il sedile fu soppresso definitivamente nel 1684 ed inglobato in quello di Montagna.

Stemma seggio dei Cimbri
Stemma seggio dei Cimbri

Il seggio di Montagna

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© Napoli - stemma del Sedile di Montagna


Era ricordato anche come seggio di “Somma Piazza”, per la sua collocazione nella parte più alta della città, o  dei “Francini” perché la sede iniziale era presso la casa della nobile famiglia Francini. Vi è memoria della presenza in questo quartiere di un teatro, del foro, del palazzo palatino (sede dei pubblici affari) in epoca ellenico-romana. Nel 1419 la sede, poi, fu trasferita di fronte al palazzo Cursi, in via dei Tribunali, tra la via S. Paolo e la chiesa di S. Arcangelo a Segno, confinando con il palazzo della famiglia Cicinello. Il sedile si estendeva su tutto il quartiere, ubicato nella parte alta della città.

Presentava:

1- Arma del seggio: era formata da tre monti di verde in campo d’argento (5 monti in oro in campo azzurro). Una corona a trifogli d’oro con due saraceni a sostegno era riposta a ricordo della vittoria dei napoletani nel 1504.
2 - I seggi minori erano otto, corrispondenti ai vecchi tocchi: 
Seggio di San Paolo e Talamo, nei pressi della chiesa di S. Paolo;
Seggio Capo Piazza o Somma Piazza, così chiamato per essere collocato nella piazza più alta della città. Era detto anche dei “Rocchi” per la presenza della famiglia Rocco. Vi si trovava nei pressi il Pozzo Bianco;
Seggio di Mamoli o di Mercato, dal nome della famiglia Mamoli, ubicato nei pressi del vecchio mercato, vicino la chiesa di S.Lorenzo. Vi era un portico nel vicolo de’ Maiorani. Presentava arma una testa di leone con un ramoscello d’ulivo tra le fauci;
Seggio dei Ferrari, ove risiedeva la famiglia Ferrara fondatrice della chiesa di San Pietro dei Ferrari. Aveva come arma due leoni rampanti che mirano ad una cometa con tre stelle ad otto punte. Al tempo di re Ruggiero veniva chiamato Tocco de Galien .
Seggio dei Saliti, così chiamato per la presenza della famiglia Saliti, residenti nei pressi della cappella di S. Francesco dei Saliti. Aveva come arma un leone che scala tre monti;

Seggio dei Manoli

Seggio dè Ferrari

Seggio dei Saliti

Da sinistra a destra: Seggio dei Manoli o Mammoli, Seggio dè Ferrari e Seggio dei Saliti

Seggio dei Calanti

Seggio dei Calanti

Seggio dei Cannuti. A destra: Seggio dei Calanti

Seggio dei Cannuti, legato alla famiglia Cannuti. Aveva come arma un leone rampante in lotta con un serpente attorcigliato ad albero. Era collocato presso la chiesa degli Incurabili;
Seggio dei Calanti, collegato alla famiglia Calanti, presso la chiesa di S. Giovanni in porta. Aveva come arma tre monti sormontati da tre uccellini, di cui uno in volo;
Seggio di Porta S. Gennaro, collocato nei pressi della porta omonima, oggi sede della chiesa di Nostro Signore Gesù delle Monache. Era detto anche seggio di Carmignano per la sede nel palazzo di detta famiglia.

Le “Costituzioni” o Capitoli del seggio risalgono al 1420, mediante “Istrumento pubblico” che vide la partecipazione di sei nobili patrizi napoletani, provenienti dai seggi di Forcella, Montagna e seggi minori. Il 26 dicembre 1500 seguì altra Costituzione.

Il citato Mazzella elenca le seguenti famiglie iscritte: Cicinello, Carmignano, Bonifatio, Coppola, Costanzo, De Maio, Di Rivera, Maiorano, Miraballo, Muscettola, Origlia, Pignone, Poderico, Quarracino, Rocco, Rosso del Barbazzale, Sanfelice, Sances, Soriente, Stendardo, Toledo, Villano.
Le estine erano: Aleo, Albissa, Alneto, Arcamone, Arichiuto, Anco, Aneccio, Balestriero, Baiano, Buteo, Barbaro, Boccatorto, Brisaca, Bruto, Cicina, Cocchiola, Caputo Caruiserta, Cotogno, Cupidino, Colombo, Griffo, Cecalese, Cimbro, Caperuso, Calanda, Conza, Cannuto, de Toro, Faiella, Francone, Falce, Ferrara, Giontola, Guibeligna, Ganga, Genutio, Hercules, Iapanto, Iagante, Impero, Iulo, Ianara, Lanzalonga, Mammolo, Monda, Moccia, Mugillano, Mumia, Mardones, Muschetta, Mazza, Orimine, Origlia, Pappa Insogna, Pozella, Pizzofalcone, Pizzo, Paladino, Pigna, Pizzuno, Retrosa, Raimo, Ronchello, Roccha, Rosso del Leone, Sicola, Sarciatis, Soto, Spicciola Cascio, Scanna Cardillo, Scrignara, Simia, Sarno, Sicula, Sforza, Trofeo, Toso, Tora, Verticillo.

Secondo il Torelli, nella menzionata opera, l’elenco era invece così composto: Cicinello, Carmignano,  Coppola, Francone, Majo,  Miroballo, Muscettola, Pignone, Poderico, Ribera, Rosso del Barbazzale, Sanfelice, Sances, Sorgente, Toledo.

Nell’opera del Capecelatro del 1769 l’elenco risulta così formato:

Carmignani, Cicinelli, Coppola, Majo, Miraballi, Franconi, Muscettola, Pignoni, Pulderichi, Rochi, Rossi, Sanfelice, Sances, Sorgenti, Toledo, Villani. Secondo lo stesso, le famiglie estinte erano:
Majorini, Arcamoni, Bajano, Balestrieri, Barbati, Boccatorti, Bonifacii, Calandi, Cannuto, Costanzi, Cicalesi, Caperuso, Chianula, Cicini, Cimbro, Cochiola, Cotogno, Ferraro, Fagilla, Giontola, Grassi, Ribera, Rossi del Leone, Scorciato, Boffa detti Stendardi, Scrignari. Alla data del 1800, nel Libro d’Oro le famiglie ancora presenti erano: Althan,  Carmignani, Coppola, Daun, Francone, De Majo Durazzo, Muscettola, Pacecco, Pignone, Ravaschiero, Sanchez de Luna d’Aragona, Sanfelice di Acquavella-di Bagnoli, Laureana, Transo.
 

Il seggio di Nilo o Nido

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© Napoli - stemma del Sedile di Nido o Nilo

Era chiamato dagli antichi quartiere di “Vestoriana” e “Calpurniana” o “Alessandrino” per la presenza dei mercanti di Alessandria, che avevano la loro chiesa dedicata a S.Atanagio, patriarca di Alessandria. Successivamente in epoca rinascimentale, tale sedile fu così chiamato per il rinvenimento in loco della statua di marmo rappresentante il fiume egiziano. Detta statua del Nilo, giacente sdraiato con una cornucopia (simbolo di abbondanza), fu eretta dai coloni egiziani/Alessandrini ivi residenti e rinvenuta intorno al 1476 in occasione di alcuni scavi nell’attigua piazzetta (regione Nilense).
Essendo decapitata, la statua
fu restaurata dal principe Paolo Dentice, Ferdinando Sanfelice, Marcello Caracciolo, principe Pietro di Cardona, principe di Cassano e duca di Carinola, Augusto Vicenzio e Antonio Grazioso, con una nuova testa barbuta e nel 1734 fu riposta una lapide alla base per ricordarne la storia.
Il testo dell’iscrizione così riferiva: VETUSTISSIMA NILI STATUAM VIDES, AT CAPITE NUPER DUCTAM NON SUO, HOC SCILICET NILI FATUM EST, SUUM QUOD OCCULTAT CAPUT ALIENO SPECTARI, NE TAMEN OBSERVANDUM ANTIQUITATIS MONUMENTUM QUOD PROXIMAE NOBILIUM SEDI NOMEN FECIT, STATUAE TRUNCUS IACERET IGNOBILIS, ELEGANTIORI EXORNATUM CULTU, ERBANI AEDILES VOLUERUNT.ANNO D. MDCLVII.
Secondo altre fonti detto nome si alternò spesso con quello di Nido, derivante dalla folta presenza in questo quartiere di nidi di uccelli o di studenti-scolari dediti allo studio dei volatili.

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© Napoli - Statua del Nilo


Il seggio di Nilo risulta tra i seggi più antichi della città, già citato in alcuni documenti amministrativi del 1200, tanto da essere detto “Tocco Maggiore”. La Basilica di San Domenico Maggiore in Napoli, già San Michele Arcangelo a Morfisa, eretta dai domenicani (1283-1324), fu arricchita dalle committenze dei nobili del Seggio, cui era delegata l’amministrazione della zona, da ammirare, tra l'altro, la cappella della Natività. 
La sede era presso la casa degli Afflitto e collegio dei padri della Compagnia di Gesù, seppur la primordiale sede fu presso la chiesa di S. Angelo a Nido (tra i vicoli di Donnaromita e del Salvatore). Successivamente, nel 1476, i cavalieri comprarono un locale sito al Largo del palazzo dei de Sangro e lo restaurarono tra il 1507 ed il 1517. Altra sede fu il palazzo appartenuto ad Antonio Beccadelli e poi a Giacomo Capece Galeota duca della Regina, accanto alla statua del Nilo.
Un regolamento del seggio di Nido risale alla data del 8 giugno 1500 presentava:

1 - Arma del Seggio: era rappresentata da un cavallo rampante nero in campo oro con corona trifoglia d’oro e due figure di sostegno (di cui un “mantenitore” con corona d’alghe, lunga barba ed anfora, mentre versa acqua su un coccodrillo ed un cavallo d’oro, altro sostegno).

2 - I seggi minori erano:

Seggio di Arco nei pressi della torre dei vulcani, forse per la residenza del magistrato ellenico Arconte. Aveva per arma un arco finemente lavorato poggiante su due antiche colonne, simboleggiando la raffigurazione del portale dell’antico palazzo di città.

Seggio di Gennariello, ad Diaconiam, nei pressi della chiesa di San Biagio dei Librai, ove convenivano i diaconi della città per elargire elemosine ad orfani e vedove.

Seggio di Casa Nuova, nei pressi del palazzo della famiglia Marigliano, duchi del Monte, ed al monastero di Montevergine.

Seggio di Fontanula per la presenza di una piccola fontana nel vicolo di Mezzocannone o forse anche per la presenza della nobile famiglia Fontanola. Aveva per arma una fontana a due bacini.

Stemma Sedile di Arco

Stemma Sedile di Fontanula

Stemma Sedile di Arco. A destra: Stemma Sedile di Fontanula o Fontanola

Altri Capitolo furono redatti nel 1507 e 1524.

Circa l’elenco delle famiglia ascritte nell’opera del Mazzella (1601), queste erano: Acquaviva, Afflitto, Aldemoresco, d’Avalos, d’Alagno, Azzia, Bologna, Brancaccio Cardinale/Glivolo/ Imbriachi/Vescovo, Caetano, Cavaniglia, Cantelmi, Capani, Capece, di Capua, Capuana, Caraccioli Bianchi / Del Carmine, Carrafa Della Spina / Della Stadera, Coscia, Diaz Garlone, del Duce, Filingiero, Frezza, Galerana, Galluccio, della Gatta, Guinazzio, Gonzaga, Grisone, Ghevara, Girone, Gesualdo, dello Iodice, di Luna, Marramaldo, Milano, Monsolino, Montalto, Orsino di Gravina, Pandone di Venafro, Piccolomini, Pignatello, Riccio, de Sangro, Sanseverina, Saracino, Sersale, Spina, Spinello Aquila, della Tolfa, Tomacello, Toraldo, Vulcano.
Quelle estinte erano: Arcella, Assanto, Acerra, Baldassino, Celano, Feltrino, Imbriaco, Malatesta, Ossiero, Palentana di Ravenna, Papirio, Pilvillo, Sanframondo, Sulpicio, Agaldo di Corbano, Avezzano di Tricarico, Beccaria di Pavia, Clignetta di Caiazzo, Cardona di Rigio e Colisano, Centriglia di Cotrone, Fontanola, Farramosca di Ottaiano, Monforte di Campobasso, Rumbo, Villamarina di Capaccio.

Nella postuma opera del Torelli (1678) le famiglie erano:

Acquaviva, Afflitto, Avalos, Bologna, Brancaccio, Barberino, Cavaniglia, Capuano, Capece,  Capua, Cordines, Carafa, Coscia, Dentice, Duce, Frezza, Filangeri, Gaetani, Galluccio, Gesualdo, Gonzaga, Girone, Giudice, Guevara, Guindazzo, Grisone, Luna, Montalto, Milano, Oria, Panfili,  Rossi, Piccolomini, Pignatelli, Riccio, Sangro, Saracino, Sanseverino, Sersale, Spinello.

Al 1769 il Capecelatro, invece, annovera il seguente elenco delle famiglie ascritte:

Acquaviva, Afflitti, Avalos, Azzìa, Berlingieri, Bologna, Brancacci, Cabanigli, Cantelmi, Capani, Capeci, di Capua, Cardine, Caraccioli Carrafa della Stadera, Caraccioli Carrafa della Spina, Coscia, Dentici delle Stelle, Doce, Frezza, Gaetani, Gallucci, Gatta, Gesualdi, Gironi del Duca di Ossuta, Gonzaghi, Grifoni, Guevari, Guindazzi, Luna, Milani, Monforj, Montalbi, Orsini del duca di Gravina, Piccolomini, Pignatelli,  Ricci,  Sangro,  Sanseverini, Saracini, Sersali, Spina, Spinelli, Tolfa, Volcani.
Mentre le famiglie estinte erano: Alagno, Acerra, Beccaria, Capuani, Cardone Centeglia, Diascarlona, Fontanola, Gallarati, Malaspina, Maramaldi, Ossieri, Papirio, Polenta, Rumbo, Sanframondo, Solpizio, Toraldi, Villamarina, Tomacelli.

Nel Libro d’Oro del 1800, le famiglie ascritte risultavano: Acquaviva, Afflitto, Avalos di Celenza - del Vasto, Bologna, Bonito di Casapesenna, Brancaccio, Capano di Miano - di Pollica, Capece di Barbarano - di Corsano, Carafa d’Andria-di Belvedere-di Colombrano-di S.Lorenzo-di Maddaloni-di Montecalvo-di Noia-di Policastro-di Rocella-di Tortorella - di Traetto, Dentice di Accadia - di Arecco, Gaetani di Laurenzana - di Sermoneta, Gallarati Scotti, Galluccio, Guevara, De Luna d’Aragona, Mastrogiudice, Milano, Montalto, Orsini, Pignatelli di Belmonte - di Casalnuovo - di Cerchiara - di S.Demetrio - di Fuentes - di Marsianuovo - di Montecalvo - di Monteleone - di Monteroduni - di Strongoli, Salluzzo, Sangro di Casacalenda - di Fondi - di S.Severo - di S.Stefano, Sanseverino di Bisignano - di Pacecco - di Saponara, Saracino, Sersale, Spinelli di Fuscaldo - di S.Giorgio - di Laurino - di Scalea - di Seminara - di Tarsia, Vulcano.
 

Il seggio di Porto

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© Napoli - stemma del Sedile di Porto


Tale sedile prendeva il nome dall’antico porto della città, collocandosi tra la chiesa di S. Pietro a Fusariello e la chiesa di S. Giovanni Maggiore o meglio tra via del Sedil di Porto e Mezzocannone.
Presentava:

1 - Arma del Seggio: un villoso uomo marino, armato nella mano destra di pugnale con punta rivolta in basso, su sfondo nero. Taluni studiosi sostengono che tale figura era da identificarsi nell’Orione, il mitologico cacciatore amato da Eos ed ucciso da Artemide, che si venerava presso un tempietto greco-romano presente in quell’area urbana. Questa “Deità a’ Naviganti infesta”, secondo il Torelli presentava queste allegorie “i peli le piogge cadenti la spada, la crudeltà, e il furore dell’onde”.
Altra tradizione, invece, si rifà al leggendario Niccolò Pesce. Costui era un uomo di mare che viveva sempre immerso nelle acque marine, senza dover risalire in superficie per respirare.
La leggenda, poi, lo descrive facile esca degli enormi pesci, dal cui ventre usciva con l’ausilio del suo lungo coltello. L’arma in bassorilievo è sostenuta, poi, da due tritoni ed è ancora visibile in via Mezzocannone-angolo via del sedile di Porto.

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© Napoli - Stemma Seggio di Porto. A destra: stemma Seggio di Porto

Questo stemma sembra essere stato rinvenuto allorquando fu creata la prima sede del seggio sotto Carlo I d’Angiò e riposta in quel punto della città dal 1889, epoca del disastroso “risanamento” che portò all’abbattimento dell’antico edificio ospitante il seggio.
La lapide che accompagna il bassorilievo reca la seguente iscrizione:

“CURIA NOBILIUM DE PORTU.HEIC UBI OLIM NAVIUM STATIO FUERAT FUNDATA.INVENTOQUE IN EFFOSIONIBUS ORIONIS SIGNO DISTINCTA. NUNC SEDE IN ELEGANTIOREM URBIS REGIONEM TRANSLATA. NE CONVERSO IN PRIVATOS USUS LOCO. LONGAEVA VETUSTATE FACTI FAMA ABOLERETUR. AETERNUM APUD SEROS NEPOTES TESTEM. HUNC LAPIDEM ESSE. VOLUIT ANNO AERAE CHRIST. MDCCXLII.
(La Curia dei Nobili del sedil di Porto, volle qui, dove un tempo era stata fondata una rada per le navi, un bassorilievo di Orione trovato durante gli scavi e ora trasferito in una regione più elegante della città.1742).
Si allude nell’iscrizione anche al trasferimento dell’antica sede del seggio nel 1742 in altro locale, sito in via S. Giuseppe a Piazza Medina, fatto costruire da re Ferdinando IV di Borbone.

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Sempre il Torelli allude nella descrizione alla presenza di un cimiero con “una Nave avvampata”.

2 - I seggi minori erano:

Seggio Acquario, per l’abbondanza delle acque che affluivano anche a delle vasche, “fusari”, utilizzate per la bagnatura dei lini (su tale luogo sorse poi la chiesa di San Pietro a Fusariello, allorquando re Carlo I d’Angiò decise di trasferirli verso il ponte della Maddalena, causa il cattivo odore). Aveva per arma due figure femminili che reggono un corno dell’Abbondanza, da cui sgorga l’acqua. A ricordo di tale seggio minore, rimase una cappella sulla salita del Grande Archivio, distrutta in epoca recente.

Seggio Griffi, così chiamato per la presenza della famiglia dei Griffi/Grifone nella strada rua Catalana. Aveva come arma un grifone rampante. La sede era nei pressi del mare, ove ancora oggi si trovano dei resti di colonne e capitelli in un palazzo tra via De Pretis e la calata di S. Marco al n. 4. Tale seggio seguì le sorti della famiglia Grifone, la cui dimora fu fatta abbattere nel 1331 da re Roberto d’Angiò per il delitto di cui si era macchiato il giudice Siconio Griffi reo della morte di Lorenzo Costagnola. Anni dopo, ottenuto il perdono, il Casato ricostruì le case e il seggio, tornando ad occupare un posto di prestigio. Il sedile fu soppresso definitivamente nel 1460.

Seggio di Aquario

Seggio dei Griffi

Stemma Seggio di Aquario. A destra: temma Seggio dei Griffi

L’elenco del patriziato ascritto del Mazzella è così composto: Aiossi, d’Alessandro, d’Angelo, di Cardona, Colonna, di Dura, di Gaeta, di Gennaro, Griffo, Macedonio, Macedoni di Maione, Mele, Origlia, Pagano, Pappacoda, Serra, Severino, Strambone, Tuttavilla, Venato.
Le estinte erano: Aghilar de Cordova, Alopa, Atratino, Ambusto, Albino, Arcamone, Aventino, Castagna, Camerino, Cacciaconte, Capella, Crasso, Cicurino, Campegio, Crapanico, d’Evolo, Druso, di Nissiaco, de Mileto, de Folietto, Ferrillo, Fodio, Furio, Fuso, Fregolo, Gentile, Helva, Ianuilla, Iacobatio, Iancoletto, de Laurentiis, Landriano, Latio, Loporta Cardinale, Mandagoto, de Manatis,  Malabranca,  Novelletto,  Oringa, de Ossa, Paparone, Podietto, Scorna, Viola.

Le famiglie ascritte e citate dal Torelli erano: d’Alessandro, Ariamone, Angelo, Aquino, Cardona, Colonna, Dura, Gaeta, Macedonio, Origlia, Pagano, Pappacoda, Savelli, Serra, Severino, Strambone, Venato.

Il Capecelatro, invece, presenta nella citata opera il seguente elenco: Alessandri, Arcamoni, Cardona, Colonna, Dura, Gaeta, Gennaro, Serra, Macedonii, Macedonii di Magone, Mele, Origlia, Pagani, Pappacoda, Severini, Stramboni, Tuttavilla, Venati. Le famiglie “spente”, a quella data, erano: Aiossa, Alopa, Castagnola, Ferrillo, Fregosi, Janari, Gentile, Landriani.
Nel 1800 erano ancora ascritte
nel Libro d’Oro le seguenti famiglie: Aquino, Borghese, Colonna di Stigliano - di Tursi, de Dura, Firrau, Gaeta di S.Nicola - di Montepagano, Di Gennaro,  Harrac,  Macedonio di Grottolelle - di Ruggiano, Marino, Navarretta, Riario, Ruffo di Castelcicala, Serra di Pado, Sersale di G. Luigi, Severino di Gagliati - di Pisignano - di Sedì, Tuttavilla
.

Il seggio  di  Portanova

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© Napoli - stemma del Sedile di Portanova


Molto probabilmente tale seggio era inglobato in quello di Porto, quale seggio minore, per poi staccarsi in epoca remota. Fu chiamato seggio di Porta Nova per la presenza della nuova porta verso il mare, edificata a seguito dell’allargamento della cerchia muraria, accanto alla chiesa di Santa Maria di Portanuova. Nei primi anni del ‘400 fu istituito dal governo angioino l’Ordine o Compagnia della Leonza che raggruppava in maggioranza patrizi del seggio di Portanova.
La sede del seggio fu rifatta in diverse epoche, tra il 1587 ed il 1673, nonché ampliata tra il 1706 ed il 1708. Nel 1723 fu totalmente ricostruita su disegno di Giuseppe Lucchesi con affreschi e decori ad opera di Nicola Malinconico.
Presentava:

1 - Arma del seggio: una porta d’oro in campo azzurro (prima era rosso) con due cani d’oro come sostegni, “per la fedeltà a’ cani la custodia delle porte commettevasi” .

2 - I seggi minori distribuiti nei quartieri o “tocchi”inclusi erano:
Seggio degli Acciapacci, derivante dalla nobile famiglia omonima, già residente dal X secolo a Napoli ed in Sorrento, presso il seggio di Porta. L’arma di questo seggio era simile a quello della suddetta famiglia: un leone rampante in oro, attraversata da una banda di azzurro che è caricata da tre conchiglie d’oro (poi tre asce o accette), il tutto in campo d’argento.
Vi è una bolla del 1117, presso l’archivio della Trinità di Cava, in cui l’arcivescovo di Napoli, Sergio III, citò tale seggio per la concessione fatta all’Abate del monastero della Trinità di Cava circa l’esenzione della sua autorità su alcune chiese di detto monastero.

Seggio dei Costanzi, dalla nobile famiglia Costanzi presente a Napoli dal XII secolo. Collocato presso la chiesa di S. Maria, aveva come arma un leone sopra sei costole, tre per lato. La sede fu abbattuta per ordine di D. Pedro di Toledo, a seguito dell’ampliamento della strada vicereale.

Stemma Sedile Acciapacci

Stemma Sedile dei Costanzo

Stemma Sedile Acciapacci. A destra: Stemma Sedile dei Costanzo

Il Mattei, consultando i Registri Angioini, riferisce che sotto re Carlo II d’Angiò scoppiò una lotta tra famiglie nobili iscritte al seggio di Portanuova, tubando la quiete pubblica. Detto sovrano, allora, “relegò a domicilio coatto” le famiglie dei Caputo in Eboli, i Griffi all’Aquila, i Moccia, i Fellapassi e Serinani ad Isernia, fino a quando non si fossero placati gli animi (Si ricorda, poi, che Andrea Capuano fu nel 1665 l’eletto del seggio di Portanova come G. Battista Capuano, in seguito, nel 1669).

La sede del seggio fu eliminata completamente dalla commissione ottocentesca del Risanamento di Napoli e fu lasciata a ricordo nel 1898 una lapide.

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La sede del seggio è oggi ricordata da una targa posta in piazza Portanova.

Il Mazzella riporta le seguenti famiglie ascritte nella sua opera (1601): Capasso, Capoano, Anna, Bonifatio, Agnese, di Costanzo, Coppola, Gattola, Gonzaga, Liguoro, Lottiero, Miraballo, Moccia, Mormile, Sannazzaro, Sitica.
Le estinte, invece, erano: Acerra, Adimario, Arbusto, Amala Atellano, Alagona, Annecchina, Arcamone, Basso, Bruno, Bolgarello, Burgarella, Brissio, Caputo, Capella, Casatina, Capisuccio, Cantelana, Cantelmo, Casamatta, Camerina, Cerva, Castellina, Castagnola del Cardinale, Cicaro, Cicala, Collalto, Collemedio, Corrario, de Albertis, de Arco, de Acebaio, de Diano, de Omnibono, de Comitibus, Edina, Farinola, Franco, Fogliano, Frangipane, Ficerio, Flandrino, Gambatella, Gentile, Gorvo, Grissina, Manfrone, Massovia, Mastaro, Marolio di Loreto, Monturco, Monticello, Monforte, Miscini, Nardino, Novelletto, Ollopesce, Ossiero, Oringa, Orlanda, Olzina Secretario, Pulzina di Mirabella, Pictavia di Cotrone, Pico della Mirandola, Pozzella, Ravignano, Ronchella, Sassone, Serignana, Sforza, Scannasorice, Siscale di Aiello, Stagna Sangue, Toso, Turtello, Tora, Vallone, Valignana.

Le famiglie  della citata opera del Torelli erano:

Aponte, Capuano, Costanzo, Coppola, Gattola, Liguoro, Miroballo, Moccia, Mormile, Sitica.

Al 1769 il Capecelatro individua il seguente elenco: Agnesi,  Aponti, Capuani, Coppola, Costanzi, Gattoli, Gonzaghi, Liccuori, Miraballi, Mocci, Mormili, Sitica.
Le famiglie “spente” erano:

Anna, Arco, Bonifazii, Bulgarelli, Farafalla, Cafatini, Caputi, Castagnola, Cicari, Freapane, Ravignano, Ronchella, Sannazzaro, Scannasorice, Sassone.
Le famiglie rimaste ascritte alla data del 1800 (
libro d’Oro) furono: Albani, Albertini, Altemps, Aragona, Capasso delle Pastene, Capuano, Carignani, Cavalcante, Cito, Grimaldi, Liguoro di Polleca - di Presicce, Marulli, Mastrilli, Mormile di Carinari - di Castelpagano, Perlos, Sambiase, Serra di Cassano
.
 

Le  famiglie nobili  “fuori seggio”


Infine, occorre annoverare le famiglie nobili “fuori seggio”, che “non godono gli onori de’ Seggi. Sono parimente anch’esse una parte della Napoletana Nobiltà, di nulla a quella de’ Seggi inferiore”. Queste risultarono essere, secondo il Capecelatro: Ajerbi del sangue reale di Aragona, Aquini, Belprati, Beltrani, Castrocucchi, Filingeri, Marrieri, Arena, Gambacorti, Gargani, Gattinarii Lignani, Grimaldi, Marchesi, Mastrogiudici, Missanelli, Medici, Mendozza, Monti, Oria, Palagani, Pinelli, Rossi di Parma de’ Conti di Cajazza e duchi delle Terze, Ruffi, Siscari, Soardi, Scaglioni, Ratta, Ruota, Toraldi, Torelli, Tufi, della Noja, Valva.

Il  seggio  di  Popolo

© Napoli - Stemma del Sedile di Popolo
© Napoli - stemma del Sedile di Popolo


Per comprendere la composizione sociale della classe del Popolo, è significativo considerare la definizione del Tutini, in cui precisa la distinzione tra “popolani” e “plebei”. I primi erano prevalentemente formati da mercanti, artigiani e tutti gli addetti alle libere professioni, cioè il “popolo grasso”.

Tale seggio appare per la prima volta nei capitoli di re Roberto d’Angiò come seggio “de populo dicitur grassus”, seppur si ritiene di più antica origine. E’, comunque, appurato che detto sedile fu confermato dalla regina Giovanna II al popolo, quale premio per la fedeltà nella sommossa cittadina contro l’oppressione del marito conte Della Marca.
Fu chiamato anche seggio della “Sellaria”, dall’area occupata, o “Pittato” per i particolari affreschi presenti nell’immobile che lo ospitava.
Sotto re Alfonso I d’Aragona ne fu ordinata la sua demolizione il 10 dicembre 1456, in quanto, secondo talune fonti, necessitava ampliare la via della Sellaria (luogo questo adibito allo svolgimento delle giostre cavalleresche o “barrere”), in base al progetto urbanistico del tempo. Altre fonti, invece, in merito a tale soppressione evidenziano delle ragioni politiche, quali l’esclusione del popolo dall’esercizio del potere politico-amministrativo della città.
A causa dei tumulti, il successivo re Ferrante I riconcesse ai rappresentanti del popolo un locale del monastero di Sant’Agostino (alla Zecca) per poter rendere omaggio a San Gennaro, ordinando per tale occasione religiosa la costruzione di un palco ligneo con drappi (“catafalco del Pendino”). Sotto gli aragonesi, dunque, il popolo poté godere del solo diritto di rappresentanza protocollare (riunioni per cerimonie religiose), senza godere invece dei diritti politici. Difatti, si verificò che in data 23 ottobre 1496 il rappresentante del Popolo, Ludovico Folliero, partecipò con gli altri cinque nobili rappresentanti al ligio omaggio a re Federico d’Aragona nella sala dell’Incoronata. Soltanto due anni dopo, nel 1498, regnando lo stesso Federico, il popolo recuperò pari dignità rispetto ai nobili, in quanto il proprio rappresentante fu chiamato a firmare un Capitolo d’accordo che prevedeva il solenne giuramento di fedeltà al sovrano aragonese e suoi successori.
Carlo VIII,  poi, con decreto del 15 maggio 1495 concesse nuovamente al popolo il diritto di radunarsi presso il proprio sedile, la cui sede fu fissata nel chiostro del convento di Sant’Agostino alla Zecca. Il nuovo eletto del Popolo fu Giovanni Carlo Tramontano che mantenne la banca del Popolo con 29 capi popolo, detti consultori.
Tale piazza non fu organizzata a quartieri, come per i sedili nobiliari, bensì suddivisa in ventinove “ottine”, luoghi ove si riunivano le famiglie popolari delle ventinove antiche strade di Napoli.
L’ottina, in principio, si compose di solo otto famiglie, poi passò a dieci e faceva riferimento sempre ad una chiesa. Per ogni ottina, poi, si eleggeva un capitano del Popolo o Capo Popolo, scelto tra sei cittadini, che a sua volta venivano nominati con voto segreto (poi sostituito con nomina regia o votazione pilotata dal re) di due “procuratori”. Quando la nomina dell’eletto del Popolo divenne reale in epoca spagnola, costui provvide alla scelta dei sei uomini della piazza.
Il Capecelatro evidenziò quest’aspetto di sudditanza e fedeltà al re in questo processo di nomina, tanto da influire sulle scelte politiche del rappresentante, che aderiva “s
empre ai vicerè in guisa tale, ch’eran più tosto mezzo ad effettuare il loro volere, che procuratori dell’utile del popolo a loro commesso”. Questo eletto, comunque, andava a rappresentare la piazza del Popolo presso il Tribunale di S. Lorenzo, come gli fu consentito di esercitare giustizia sommaria (privilegio di re Ferdinando il Cattolico del 28 maggio 1507) sui venditori che esercitavano il commercio in piazza del mercato tra il lunedì ed il venerdì (il condannato aveva diritto di appellarsi al prefetto dell’Annona). Inoltre, l’eletto di Popolo aveva il diritto a nominare i “capitani di guerra” e reclutare una milizia cittadina in caso di guerra. Queste nomine del “maestro di campo” e dei capi della milizia civica, spettanti al sedile di Popolo, venivano presentate al Viceré tra varie candidature del ceto aristocratico. In epoca spagnola, a seguito della rivolta di Masaniello, il seggio rischiò di essere soppresso e solo grazie all’intervento dell’Arcivescovo di Napoli, Filomarino, riuscì a riportare la pace salvandolo (26 agosto 1647).

Inoltre, il seggio di Popolo presentava:
1 - Arma del seggio: era rappresentata da una “P” maiuscola (Popolo) di nero in campo oro e rosso. Tale lettera fu sostituita con una “C” (Civitas) nel tempo che resterà poi come emblema civico dell’amministrazione di Napoli.

2 - Le citate “ottine” comprendenti il seggio fino all’epoca dell’abolizione dei sedili furono: Capuana, Armieri, Case Nuove, Fistola, Donnalbina, Forcella, Bajano, Mercato Grande, Loggia di Genova, Mercato Vecchio, Nido, Porta del Caputo, Rua Catalana, Rua Toscana, Porto, S. Angelo a Segno, Santa Caterina Spina Corona, S. Gennaro all’Olmo, S. Giovanni Maggiore, S. Giovanni a Mare, Santa Maria Maggiore, S. Giuseppe a Carità, Della Scalesia, Sellaria, Vicaria Vecchia, Vergini, Spezieria Antica, S. Spirito di Palazzo.

3 - Il regolamento, “capitoli”, di seggio fu approvato , con i suoi 20 articoli, il 22 ottobre 1522.
 

sintesi


La regina di Napoli Giovanna II di Durazzo nel 1420 abolì i seggi minori e le famiglie ad essi appartenenti furono aggregati ai seggi maggiori e creò il seggio del Popolo.
Nel 1684 il re di Napoli Carlo II d'Asburgo-Spagna soppresse il Sedile di Forcella che fu incorporato in quello di Montagna.
Nel 1800 il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone abolì il Tribunale di San Lorenzo e tutti i Sedili; fu istituito il Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno di Napoli che nel 1807 pubblicò il Libro d'Oro napoletano ovvero "
La Platea delle famiglie Patrizie Napolitane".
 

Epilogo


Questo modello socio-culturale di civiltà, diffuso nell’area sud-mediterranea della nostra penisola, entrò in crisi a fine del secolo XVIII, con l’invasione delle truppe franco-napoleoniche ed il sostegno politico della classe settaria dei liberali. La rivoluzione massonica-garibaldina ed il processo di Unificazione d’Italia cancellò definitivamente tale realtà organizzativa delle classi sociali, lasciando all’aristocrazia solo il ricordo dell’onore goduto in passato.
Con la scomparsa del “governo dei nobili” nelle province Meridionali, si chiude, così, una gloriosa pagina di storia del Mezzogiorno d’Italia, che il principe di Canosa profetizzò nelle suddette parole: “distruggete in una Monarchia (Stato) le prerogative dei Signori, del Clero, della Nobiltà, delle Cittadi, ed avrete tosto uno Stato Popolare ovvero dispotico”.
 

LA DEPUTAZIONE DELLA CAPPELLA DEL TESORO DI SAN GENNARO
a cura di Pierluigi Sanfelice di Bagnoli


Nel 1500 la città di Napoli patì sofferenze di ogni genere, infatti, proprio ad inizio secolo dal 1506 al 1507, una carestia mise in ginocchio la comunità. Nel 1526 una epidemia di peste sconvolge la città, decimando letteralmente i suoi abitanti e poi la guerra, che metteva a dura prova le capacità del territorio, terminò soltanto nel 1529.

Alla luce di questi eventi, spinti dalla volontà popolare, gli Eletti della città che formavano il Tribunale di San Lorenzo, (il consiglio comunale), si persuasero a fare voto a San Gennaro, affinchè intercedesse “a che la città fosse salvata dalla fame, peste e guerra”.
Pertanto i rappresentanti dei Seggi Nobili e il rappresentante del Popolo, il 13 gennaio 1527, anniversario della traslazione delle ossa di San Gennaro da Montevergine a Napoli, fecero voto di erigergli una nuova e più bella Cappella. L’impegno fu assunto solennemente e sottoscritto alla presenza di Donato, Vescovo di Ischia, Vicario Generale del Cardinale, Vincenzo Carafa.
Firmatari del documento furono: Marino Tomacelli per Capuana; Francesco d’Alagno per Nido; Galeazzo Cicinello e Antonio Sanfelice per Montagna; Alberigo de Liguoro per Portanova; Antonio d’Alessandro per Porto e per il Sedile del Popolo Paolo Calamazza.
Il sedile di Montagna è rappresentato da due Eletti a differenza degli altri, questo perché il Seggio in questione aveva assorbito quello antico di Forcella.
Fu proprio in questa data che si gettarono le basi per la costituzione della Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro.

Ingresso Museo Tesoro di San Gennaro sito in Napoli alla via Duomo
© Napoli, via Duomo 149 - Museo Tesoro San Gennaro

E’ riconosciuto dalle Bolle dei Pontefici Paolo V ed Urbano VIII che il diritto di Patronato non proviene da un privilegio Apostolico bensì da una dotazione laicale sorta con beni patrimoniali e di esclusiva provenienza laicale.
Questa fondazione e dotazione fu originaria, vera, fondata sul fatto, piena, completa in ogni sua parte e fornita di tutti i requisiti costituenti diritto.

I lavori della Cappella, dichiarata monumento nazionale il 25 febbraio del 1891, furono conclusi nel 1647; alle spalle dell’altare maggiore vi è la cassaforte, le cui porte in argento finemente intarsiato, raffigurano le ampolle col sangue. In essa vengono custodite le reliquie del Santo Martire consistenti in: il busto nella cui testa vengono custodite le ossa del cranio di San Gennaro e il reliquiario contenente le ampolline con il venerato sangue. Le porte d’argento che racchiudono la cassaforte, vengono aperte con quattro chiavi, custodite dalla Eccellentissima Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro.
La Cappella è quasi sempre
 officiata da S.E. Reverendissima il Cardinale, Arcivescovo di Napoli, con autorizzazione dell’Abate Tesoriere, delegato Apostolico e da 12 cappellani che sono insigniti della dignità e privilegi domestici di Sua Santità. Il Tesoriere, scelto tra i 12 cappellani, è insignito della dignità di protonotario Apostolico con i privilegi degli Abati Cassinesi(62).
La parte amministrativa come pure la nomina dei cappellani è affidata alla Deputazione, i cui componenti (12 oltre il sindaco, che ha sostituito il Re, pro-tempore che ne è Presidente, di cui 10 appartenenti alle famiglie nobili del Patriziato Napoletano e due del Popolo) vengono nominati con decreto del Presidente della Repubblica. La nomina dell'Abate Tesoriere viene effettuata dai Prelati fra il loro ceto; la decisione passa alla S. Sede per le formalità d'uso
(63).

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© Le ampolle con il sangue di San Gennaro

I Deputati rappresentano storicamente gli antichi Seggi della città e sono due per ciascun Seggio.
Nel 2005, dopo 1700 anni dal Martirio di San Gennaro e 700 anni dopo la realizzazione dell’Imbusto, la Deputazione è rappresentata:
Il Sindaco di Napoli: Onorevole Rosa Russo Iervolino, Presidente

Don Carlo di Somma Principe del Colle, vice Presidente

Duca Don Riccardo Carafa d’Andria
Conte Don Alessandro d’Aquino di Caramanico
Marchese  Don Pierluigi Sanfelice di Bagnoli
Dott. Vittorio Accardi

Don Girolamo Carignani dei Duchi di Novoli

Conte Don Agostino Caracciolo di Torchiarolo
Don Riccardo Imperiali dei Principi di Francavilla
Duca Don Giovanni Pignatelli della Leonessa
Don Fabio Albertini dei Principi di Cimitile

Il sabato che precede la prima Domenica di maggio e il 19 settembre indossano per l’occasione il frak con panciotto nero e fascia rossa. Il panciotto di colore nero sta a rappresentare il lutto, mentre la fascia in quanto rappresentanti della città e il colore rosso per il martirio di San Gennaro.

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© Il Duomo di Napoli

Il 26 maggio 1628, il consiglio comunale, detto Tribunale di San Lorenzo in quanto risiedeva nell’omonima Chiesa, su richiesta del Baronaggio, votò affinchè alcuni Santi protettori della città fossero dichiarati protettori del Regno e che se ne chiedesse l’assenso Pontificio, tramite il Cardinale Arcivescovo di Napoli.

Oltre a San Gennaro furono dichiarati protettori del Regno: San Francesco di Paola, S. Andrea Avellino, madre Teresa di Gesù, S. Aniello, S. Tommaso d’Aquino, S. Attanasio, S. Agrippino, S. Severo, S. Eusebio, S. Aspreno, S. Patrizia, S. Filippo Neri, S. Antonio di Padova, S. Blasio, S. Nicola di Bari, S. Francesco Saverio e il beato Gaetano Tiene. Le statue dei compatroni sono nella cappella del Tesoro.
Tra i 54 compatroni di Napoli, tutti rappresentati dai busti d’argento del Tesoro di San Gennaro, vi siano anche sette santi spagnoli: San Domenico di Guzman, San Francesco Saverio, Santa Teresa d´Avila, San Francesco Borgia, Sant'Ignazio di Loyola, San Vincenzo Ferrer, San Pasquale Baylon.
I Deputati al Parlamento della città che votarono la richiesta erano:

per Capuana: Ferrante Dentice e Lutio Caracciolo

per Montagna: Battista Rocco e Francesco Sanfelice

per Nido: Tommaso Carafa e Gio. Paolo del Doge

per Porto: Gio. Battista Pagano e Francesco Serra

per Portanova: Matteo Capuano e Giulio Cesare Moccia

per il Popolo: Battista Apicella e Lorenzo d’Agostino. 

"La Deputazione del Tesoro, da sola, rivive il Patriziato, pur nei suoi più ristretti compiti istituzionali che le sono riconosciuti. Si può dire, quindi, che i Patrizi Napolitani – tutti i Patrizi Napolitani – conservino, attraverso questa Istituzione, una frazione del potere politico ed amministrativo, in quasi tutte le altre società irrimediabilmente perduto. Esso comporta pertanto, con un sentimento di giusto orgoglio, un impegno morale da non trascurare.
                                                                                                                             
Enzo Capasso Torre delle Pastene"
 

Nel corso dei secoli il Tesoro di San Gennaro si è arricchito di oltre 21.000 opere, tra cui favolosi gioielli, capolavori caravaggeschi, tele di Luca Giordano, argenti, diamanti e rubini.
Oggi è il patrimonio artistico più ricco del mondo, superiore a quello della Corona d'Inghilterra e dello Zar di Russia.


 

I SEDILI DELLE ALTRE CITTA'


AMALFI (della costa di): Amalfi, Maiori, Minori, Ravello, Scala e Tramonti.
AVERSA:
di San Luigi
CAPUA:
dell’Olivo o dei Cavalieri (il più antico, la cui sede era di fronte a palazzo Lanza), dei giudici, degli Antignano.
La Consulta del Regno d’Italia riconobbe Capua come Piazza aperta e non chiusa, per cui riconobbe per gli appartenenti al suo sedile il titolo di nobile e non di patrizio.

CROTONE:
S. Dionigi
 l'Areopagita
POTENZA:
Seggio dei Possidenti
SANT'ARCANGELO (PZ)
SALERNO:
Portanova, Portarotese e Campo.
SORRENTO:
Dominova e di Porta.
TRANI:
Portanova, Campo.
TROPEA:
Portoercole.

________________
Note:
1) Parrino, Teatro de’ Viceré il Conte di Castrillo, T. III, pp.193-194.
2) S. De Renzi, Tre secoli di rivoluzioni napoletane, Napoli 1885, p.29.
3) S.Volpicella, Studi di Letteratura, Storia ed Arti, Napoli, 1876, p.15.
4) Cfr.C.Porzio, La congiura dei Baroni del regno di Napoli contro il re Ferdinando I, Milano 1965,ristampa Ed.Rizzoli.
5) cfr.E.Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro, Bari, 1926.
6) Santoro, La spedizione di Lautrec nel regno di Napoli, a cura di T.Pedio, Galatina, 1972, p.58.
7) Ibid.
8) cfr.N.Cortese, Feudi e Feudatari napoletani nella prima metà del cinquecento, Napoli, 1929, pp.28-150.
9) Le assemblee furono quelle del 1536, 1538, 1539, 1541, 1543, 1546, 1549, 1552.
10) S.De Renzi, Op. cit., p.52.
11) cfr.U.Folieta, Tumultus Neapolitani sub Petro Toleto, Napoli, 1769; A.Liberati, Tumulti avvenuti in Napoli nel 1547, Siena, 1910.
12) S. De Renzi, Op.cit., p.74.
13) T.Costo, Dell’Istoria del Regno di Napoli, Napoli, pp.399 e ss.
14) G. D’Agostino, Re Viceré Rivolte, Napoli, 1993, p.101.
15) Cfr. M. Bisaccioni, Historia delle Guerre Civili de gli ultimi tempi, Venezia, 1652. Scrive l’autore (p.449) in merito a questi rapporti di alleanza tra nobili e popolo che “togliere il Genoino a Maso e al popolo era un togliere un timone ad una nave agitata da’flutti”.
16) S. De Renzi, Op. cit., p.106.
17) V. Conti, La rivoluzione repubblicana a Napoli e le strutture rappresentative, 1647-1648, Firenze 1984, p.5.
18) A History of the late revolutions in the kingdom of Naples del 1652.
19) M.Miato, Maolino Bisaccioni,Istoria delle Guerre Civili di Napoli, Firenze, 1991,pp.XIII-XIV.
20) Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, 4146, Napoli 22 marzo 1648. Il carteggio di Vincenzo de Medici riferisce, invece, dell’esistenza di 32 senatori, di cui 10 arcivescovi, 10 deputati della nobiltà, 10 deputati del popolo, 12 deputati delle Provincie.
21) La neonata repubblica garantì: 1.la nomina dell’eletto del popolo mediante “pubblico parlamento” da tenersi presso la chiesa di S.Agostino con la partecipazione dei capi delle Ottine; 2. l’Eletto del popolo restava in carica sei mesi ed aveva “tanti voti quanti i cinque sedili de’nobili”; 3. l’abolizione della gabella sulla frutta e la spettanza al popolo della determinazione delle nuove imposizioni; 4. la possibilità di rimanere in armi per il popolo, fino a quando non giungevano le conferme reali della Spagna 5. il divieto agli stranieri di mantenere alcuni principali uffici (cfr.S.De Renzi,Op.cit.,p.137)
22) F.Capecelatro, Diario, contenente la storia delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647 al 1650, Napoli, 1665, parte III, p.497.
23) Secondo alcune fonti storiche, Masaniello respinse il messo dell’ambasciatore francese di Roma, con sua proposta di sottomissione alla corona di Francia, asserendo che “non voleva altra corona se non quella della Madonna” ( S. De Renzi, Op.cit., p.120). I suoi successori, poi, mal tollerarono la fedeltà alla corona spagnola.
24) Il duca di Guisa fu catturato sulle colline di Santamaria, mentre tentava di mettersi in salvo, e rinchiuso nel castello di Gaeta. Fu imprigionato anche il principe di Montesarchio, torturati Gennaro Annese, Tiberio Ferro, Paolo Bicchiero, Pasquale di Santantimo ed Andrea Ruocco.
25) G. D’Agostino, Op.cit.,p.105. Si aggiunga tra le cause il diffuso clima anti-spagnolo, presente nel ceto aristocratico, contro il quale si era scagliato il viceré Medinaceli con ogni forma repressiva. “Furono mandati in esilio i principi di Montesarchio e di Troja ed il principe Carafa della Rocella, e don Diomede Carafa duca di Maddaloni era morto in una fortezza presso Madrid…nelle carceri di Castelnuovo il duca di Torella per atti di superbia; aveva mandato il duca di Airola prigioniero in Capua…Il principe della Riccia fu sostenuto nel Castel di S.Eramo per ingiustizie commesse a due suoi vassalli di Montoro” e poi perseguitato tanto da trovare rifugio presso il monastero dei padri Crociferi a porta S.Gennaro. Numerosi nobili ivi accorsero a sostegno del principe e “fu così che si concepì la prima idea della cospirazione” contro il dispotismo ispanico (S.De Renzi, Op. cit., p.202). L’autonomismo dalla Spagna si prefiggeva il “ripristino degli antichi privilegi goduti dal patriziato sin dall’epoca degli angioini”(G.Vico, La congiura dei principi Napoletani del 1701, a cura di E. De Falco, Napoli, 1970, p.12).
26) Gran parte di questi patrizi apparteneva “alla nobiltà di spada, sfarzosa e pomposa ma povera di potere economico-politico”(G.Vico, Op.cit.,p.17).
27) Il duca di Vasto aveva raccolto una banda di ribelli, guidata da Scarpa-leggia, che da Benevento si spostò verso Napoli a seguito del duca di Castelluccia, dei Carafa e del principe di Macchia. Da porta S.Gennaro, costoro si portarono nei quartieri bassi, raccogliendo circa seimila persone, per poi raggiungere la Vicaria, ove furono liberati prigionieri ed incendiato e saccheggiato il tribunale ed i suoi archivi. Si spostarono in S. Lorenzo, mentre il principe Macchia prese il campanile di S.Chiara, lo Spirito Santo, le fosse del grano, giungendo al seggio di Porto e mettendo in ritirata il viceré in Castelnuovo.
28) Carlo Di Sangro fu decapitato, il Capece evitò analoga condanna suicidandosi, i Carafa e gli Spinelli fuggirono in esilio, raggiungendo il principe Eugenio di Savoia, mentre il principe di Riccia, il duca Giuseppe d’Alessandro di Pescolanciano, i fratelli Acquaviva e tanti altri nobili napoletani furono condotti nelle prigioni di Castel Nuovo, poi liberati dalle milizie austriache del conte di Daun. Il Di Capua, gli Acquaviva ed il Chassignet non rividero la libertà, perché trasferiti nelle carceri della Bastiglia, in Francia.
29) Tale definizione è attribuita a Vincenzo Cuoco, il quale intese riferire che si trattò di un moto non generato dalle popolazioni locali,come avvenne per la rivoluzione francese del 1789, bensì imposto esternamente dagli eserciti invasori francesi nel regno di Napoli.
30) Di fatto, già nel 1794 taluni aristocratici furono condannati per coinvolgimento nei tumulti contro il governo, quali: L. de Medici, il Colonna di Stigliano, il conte di Ruvo, il duca di Canzano.
31) Queste furono chiamate: Sannazzaro, Montelibero, Colle Giannone,Umanità, Sebeto, Masaniello.
32) Il Capece Minutolo fu autore delle opere “Discorso sulla Decadenza della Nobiltà” (1803), “I pifferi di montagna” (1820), “Perchè il sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi ugualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei re”. Sostenitore dell’utilità della monarchia e difensore dei privilegi della classe aristocratica-baronale, partecipò alle vicende del ’99, asserendo quale eletto del sedile di Capuana, che l’autorità governativa, in assenza del re, doveva spettare ai nobili e non al vicario Pignatelli. Avverso, pure, alle decisioni giacobine di abolizione dei feudi senza indennizzo per i proprietari, si sottrasse ad una condanna a morte decretata dai repubblicani, riuscendo a fuggire.Non evitò, però, l’arresto per complicità con i rivoluzionari, con il rientro del re Ferdinando. Il Capece Minutolo nella sua opera “Discorso sulla Decadenza della Nobiltà” illustrò la situazione di crisi del ceto aristocratico, ormai svilito delle sue antiche funzioni di “generosità”, nonché sempre più escluso dal governo reale assoluto, grazie all’opera di diffamazione svolta dai magistrati e ministri, nonché dai “filosofi” miscredenti, che lottavano contro il Trono e l’Altare. Tale tesi prese spunto dall’opera dell’abate Augustin Barruel e da quella del de Montesquieu, con la quale si ribadiva che la nobiltà rappresentava l’essenza reale per la Monarchia (“dove non vi è Monarca non vi è nobiltà,ove non vi è nobiltà non v’è Monarca”) e senza la quale, il sovrano diventava dispotico ed assolutista, con rischio di essere rovesciato dai rivoluzionari (“Il chiamare privatamente a sé il Sovrano tutto il potere snerva l’energia dei sudditi”).
33) P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, T.IV, Napoli, 1821, pp.253-254.
34) Cfr. M.T.Varrone, De Lingue Latina liber 15,nel lib.3: “Phratria, est Graecum vocabulum partis hominum, ut Neapoli etiam nunc”. Pietro della Senna (Testo di Strabbone) conferma questa costumanza greca, introdotta nella Partenope ellenica come lo fu per il Ginnasio, scrivendo “Plurima tamen di Graecorum Institutorum supersunt vestigia, ut Gymnasia Epheboru Cactus, Fratriae”.
35) Cfr. JJ. Draco, De Origine et jure Patriciorum, Libri tres, Basileae,1627.
36) Cfr. O. Gentili, De Patriciorum Origine, Varietate Praestantia et Juribus, Libri quatour, Romae, 1736.
37) Esiste un’estesa storiografia sulle costumanze del patriziato (patres=fondatori) nell’epoca della Roma repubblicana ed imperiale. Alcuni cenni per ricordare i percorsi di crescita culturale dei giovani rampolli nelle arti della grammatica, della retorica e filosofia dell’antica Grecia. Le consuetudini dei matrimoni giovanili, combinati dai genitori, servì a garantire alla Gens di appartenenza un maggior prestigio. Si annoverano, poi, le tradizionali cariche politico-amministrative, cui il nobile poteva ambire, quali: questore (amministrava il tesoro statale), edile (sovrintendeva ai lavori pubblici), pretore (presiedeva ai tribunali), console e proconsole (con funzioni di comando militare e di governo della Provincia). Era, quindi, consuetudine affidare incarichi politici ai “membri delle antiche e illustri famiglie” perché ritenute custodi secolari del buon governo della città. Difatti, l’opinione diffusa sull’alto senso di responsabilità-moralità,sul sentito patriottismo, goduto dalla nobiltà di sangue portò una grande maggioranza di patrizi a coprire importanti cariche pubbliche, tra cui il Senato romano. Per renderli inattaccabili, il senato-consulto del 219 a.C. vietò a costoro di dedicarsi “agli affari, alla banca, al commercio”, cioè a tutte quelle attività che assicuravano lauti guadagni al ceto medio dei cavalieri (cfr R. Ferruzzi, Roma dalle origini alla fine dell’Impero d’Occidente, Torino, 1947). I membri del patriziato, elevati al rango senatoriale, in epoca romana e post-barbarica, oltre a rispettare il divieto di svolgere “mestieri ignobili” (tra cui anche l’attività teatrale e gladiatoria citata dal senato-consulto del 22 a.C.) dovevano mantenere comportamenti morali adeguati alla propria “dignitas” familiare o meglio a quel “rango privilegiato che sottrae l’individuo alla sorte comune, ma esige anche da chi la possiede una condotta esemplare”(cfr.A.Giardina, L’uomo romano, Bari 1994; AA.VV., Cavalli e cavalieri nella storia, nella letteratura e nell’architettura del Molise, Campobasso, 2003). Il ceto aristocratico aveva, quindi, per il rango sociale riconosciuto, un “onore” da tutelare e salvaguardare nella discendenza di sangue.
38) C. Tutini, Dell’origine e fundazione de seggi di Napoli,del tempo che furono istituiti e della separatione dei Nobili dal Popolo,Napoli, 1644, Cap.4-6.
39) F. Pagano, Istoria del Regno di Napoli, Palermo, 1832, p.423.
40) Cfr. F. Capecelatro, Degli Annali della città di Napoli, P. II, 1631-1640, Napoli, 1850.
41) N. Della Monica, Le grandi famiglie di Napoli, Roma, 1998, p.12
42) La tradizione baronale delle province del Mezzogiorno d’Italia fonda le sue radici nel sistema romano di acquisizione delle terre da parte dei coloni e dei fedeli miles (cui spettava ricompensa in terre, “donativa”, al termine del servizio o per meriti di guerra). La proprietà terriera comprendeva la villa o fortilizio, dimora del signore, presso cui si avvicinarono le popolazioni locali (familiari, amici, clienti) per fuggire alle incalzanti scorribande delle tribù barbare, avvicendatesi sul territorio italico da metà dell’anno quattrocento. Costoro ricambiavano la ricercata protezione del padrone-notabile con sue soldatesche, offrendo servizi ed impegni, cioè “l’accomandigia” basata sul principio di somma fedeltà e fratellanza d’armi (cfr. R.Barber, Il mondo della cavalleria, Milano, 1974). Questo patto di fedeltà verso il signore-sovrano, in cambio di protezione e sostentamento, era poi garantito dall’onore (“signum magnanimitatis”) del feudatario (l’Acquaviva definì l’onore quale “sole della vita; come il sole fa distinguere i colori, così esso fa distinguere il gentiluomo dal furfante”). Tale forma di servizio contraccambiata rappresenta il perno su cui si formò il sistema socio-economico del vassallaggio feudale, sia nel regno longobardo con i suoi ducati che in quello franco con le sue contee e marchesati. La baronia feudale cominciò, pertanto, ad essere trasmessa nella rispettiva discendenza familiare primogenita mascolina, nonché essere istituzionalizzata con un titolo nobiliare di concessione regia. Queste signorie mantennero la loro indipendenza e furono impegnate ad ingrandire i propri possedimenti, accrescendone la potenza a spese della corona, tanto da rappresentare una sorta di stato nello stato (E.Gothein, Il Rinascimento nell’Italia Meridionale, Firenze, 1915, p.5). Un noto esempio è la storia del ramo napoletano degli Orsini che giunsero a possedere, sotto re Ferrante, cinque ducati e sette Grandi Uffici della Corona. Quante più proprietà fondiarie feudali possedeva il Casato, tanto maggiore era la potenza della famiglia, che spesso si riuniva sotto un riconosciuto capo-famiglia (è il caso dei “Caldoreschi”, gruppo familiare dei Caldora, che erano soliti presentarsi in gran numero ed uniti nei parlamenti di Ferdinando il Cattolico, dei Sanseverino, dei Caracciolo etc.), nonostante le consuete liti. Si ricorda, poi, che ai vassalli, secondo il diritto feudale, il signore concedeva il permesso di far celebrare i matrimoni. Taluni baroni, inoltre, ebbero il diritto di battere moneta (principe di Taranto e di Salerno), nonché di esercitare il potere giudicante nel feudo o di nominare i governatori e capitani. Nel tempo, crebbe l’interesse dei baroni verso le attività speculative, garanti di buoni e facili guadagni (commercio del grano e dell’olio), mentre si astennero dall’esercizio dell’agricoltura per il mercato. Per tali prerogative rivendicarono forme di governo autonomo ed individualista con l’appoggio delle dinastie straniere, di cui detti signori si fecero ardenti sostenitori in base alle circostanze (come nel caso del partito angioino e durazzesco). Dalla regnanza degli Angioini, in poi, la corona cercò di non inimicarsi i feudatari, offrendo loro cariche e titoli in cambio di fedeltà ed alleanza. I contrasti e le lotte, comunque, non mancarono quando una delle parti non rispettò gli accordi e consuetudini. I baroni giunsero a mettersi al servizio anche di stati forestieri (come per la Repubblica di Venezia) in qualità di mercenari. Difatti, si contano tra le loro fila numerosi capitani e famosi condottieri (Giacomo Caldora, Francesco Sforza).
43) Discorso Istorico sopra l’ordine, ossia milizia del cingolo militare in Sicilia dal Gran Conte Ruggeri istituita, del sacerdote Giovanni d’Angelo e Cipriani (testo di fine ‘700).
44) Tra i provvedimenti del 1298 per i membri del seggio di Capuana vi era quello di astenersi per cinque anni da spese superflue, quale l’abbigliamento lussuoso e sfarzoso, di cui dava sfoggio la nobiltà per confermare il proprio rango sociale.
45) Sotto gli Svevi si verificò che vari esponenti del patriziato cittadino entrarono nelle schiere delle famiglie baronali per i meriti ed i favori riconosciuti dai sovrani, nonché per matrimoni contratti. Tale nobiltà di seggio cominciò, così, a godere di una particolare importanza politica, riconosciuta in tutto il regno per la loro residenza cittadina in Napoli (“Da molti secoli infatti ella era stata la capitale della Campania e la sede del governo, e per nobiltà e riputazione vinceva senza contrasto tutte le altre città”. I. Bracelli, De Bello Hispaniensi, Roma, 1573, p.14 t.) e soprattutto per il significativo numero accentrato e ben organizzato di patrizi ivi dimoranti. Queste famiglie patrizie andarono mostrando interesse, a quel tempo, nella produzione delle proprie terre, da cui traevano prodotti per il proprio consumo. Difatti, per tale motivo, re Federico ritirò la legge sulla mobilizzazione dei demani, con cui si consentiva anche ai non nobili l’acquisto di dette terre reali (cfr.E.Gothein, Op.cit., p.35). L’interesse per l’agricoltura e la guerra fu in seguito gradualmente sostituito con quello per lo studio del diritto (jus longobardorum), che formò diversi funzionari fedeli alla corona, impiegati nei tanti uffici capitolini. Iniziò, così, a costituirsi, una nobiltà di funzionari di seggio (cfr.E.Gothein, Op.cit., p.39), che approfittò talvolta della propria posizione per curare ed accrescere gli interessi familiari. Invece, a questo “servizio per il Re”, taluni esponenti cadetti anteposero il “servizio per la Chiesa”, acquisendo varie cariche (sacerdoti, monaci, vescovi, suore etc.).
46) Cfr.Registro di Re Roberto, a.1338. Circa questa lite il Capecelatro (F.Capecelatro, Origine..Op.cit.,p.123) riferisce essere stata una contesa tra la nobiltà di Porto e Portanuova contro quella di Nido e Capuana su pari lignaggio. La sentenza reale stabilì “che i cittadini di Porto e di Portauova fossero più degni del Popolo, ma inferiori de’ Nobili di Nido, e di Capuana, e sono nominati dal Re, Mediani cittadini”.
48) Scrive il Capecelatro “il tumulto a fatica si posò con esservi accorso il Principe Ottone marito della Regina e tutti i maggiori Baroni, che si ritrovarono in Napoli” (F.Capecelatro, Origine..Op.cit.,p.128).
49) C. Torelli, Lo splendore della nobiltà napoletana ascritta nei cinque seggi.Giuoco d’arme, Napoli, 1678, p.14, ma ristampa Orsini de Marzo.
50) Nel 1291 esistevano due sindaci per gli “affari pubblici”, di cui uno “milite” ed uno “mercante”; nel 1300 la deputazione per le mura cittadine era formata da cinque nobili e un cittadino; poi nel 1385 gli “Otto del buon governo” furono sei nobili e due cittadini; nel 1400 la Deputazione sotto re Ladislao si compose di sei nobili e due cittadini; nel 1418 il governo pubblico sotto la regina Giovanna II fu formato da dieci nobili e dieci cittadini; nel 1435 il governo della città finì per essere di dieci nobili e sette cittadini.
51) Secondo il Summonte (G. A. Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, 1748, L. I, p.251) era diffusa anche la consuetudine di accordare la nobiltà materna ai discendenti, nati da padre non nobile. Inoltre, sotto gli Angioini, l’educazione dei giovani nobili era, comunque, importante tanto da essere seguiti da educatori. Costoro avviavano la gioventù allo studio del diritto, seppur ben presto si diffuse un modello di educazione “umanista”(diritto, filosofia, arte del cavalcare, del giostrare, della scherma), come testimoniò il giurisperito Alessandro d’Alessandro nella sua insigne opera “Geniales Dies”. L’aspirazione professionale, post-studio, rimase nei giovani nobili, quella di diventare funzionario negli uffici reali.
52) L’ascrizione ai seggi di Capuana e Nido richiedeva, ad esempio, avere “quattro parti di nome e d’arme senza alcun ripezzo”, essere discendente legittimo e senza vizi, mentre i capitoli del sedil di Montagna prevedevano anche la possibilità di essere nobilitati dal re seppur mercanti.
53) E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo Re di Napoli, 1435-1458, Napoli, 1975, p.50. Il re “sedeva sopra un carro dorato, tirato da quattro destrieri e preceduto da musici e tubicini; un baldacchino s’innalza sulla sua persona regalmente vestita di una lunga tunica di velluto cremisi foderato di martore calabresi e con nelle mani il globo e lo scettro, simbolo della sovranità; lo seguivano i baroni del Regno con alla testa Ferrante suo figlio, vescovi, patrizi, cavalieri”.
54) Fu creato il tribunale della Vicaria, cui spettò la decisione di ogni lite di diritto feudale, nonché si occupò dell’amministrazione dei beni della Corona ed il suo presidente fu il capo della polizia di Napoli.
55) E. Gothein, Op.cit.,p.46. In epoca aragonese, il patriziato fu alquanto accorto all’insegnamento educativo dei propri rampolli, facendoli avvicinare “alla vita di corte, al divertimento raffinato e mondano”. Il giovane nobile era solito essere seguito dal suo educatore nello studio della musica, del canto e della danza (G.Vitale, Op.cit., pp.40-45), oltre a saper “scivere bene”e “saper cavalcare”. Il modello educativo si compose, quindi, di nuove materie non rientranti negli schemi tradizionali d’insegnamento, che privilegiavano i “rigorosi compiti di governo e le gloriose gesta militari”. Comunque, si prediligeva l’insegnamento fisico, legato alle tecniche del guerreggiare (combattimento a cavallo con lancia e spada), che davano agli “equites” quella dignità cavalleresca (cfr.A.Galateo, De Educatione, 1505).
56) Scrive il Summonte (G. A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, Napoli, 1748, p.15) “quei del popolo tumultarono, e fu costretto il re a cavalcare per la città, per sedare il romore, et in pena del tumulto, ne restò privo il Popolo della voce nel governo pubblico”.
57) A. Mattei, Storia d’Isernia, Napoli, 1978, Vol.II, pp.307-308. Nel 1531 il nuovo Vicerè, Pompeo Colonna, richiese altri seicento mila ducati nel Parlamento generale, nonostante le proteste dei deputati del Popolo (S.De Renzi, Op.cit.,p.43).
58) Durante il viceregno si diffusero modelli culturali selettivi sulle “buone maniere” (G. Vitale, Op.cit., pp.52-99), secondo le costumanze comportamentali della corte spagnola (servizio di tavola, elaborazione di cibi e vivande esotiche, abbigliamento squisito, il servire e prendere il cibo).In questi comportamenti educativi,estremamente raffinati e lussuosi (cfr.D. Carafa, Libro delli precepti,), si intravide una “tendenza al distacco aristocratico da parte degli strati superiori”(G.Vitale, Op. cit., p.56) che mantennero una spinta “fortemente selettiva nei confronti dei ceti emergenti” e della nobiltà medio-piccola di seggio. Il Galateo criticò questo modello educativo, perché lasciò quello schema umanistico (basato sulla conoscenza delle lettere, dell’addestramento fisico e delle armi) per altro concentrato sul lignaggio apparente e mistificatorio. Si diffuse, in questo periodo, il “dibattito sulla qualificazione nobiliare connessa con la nascita o addirittura con l’ascrizione a questo o a quel seggio”(G. Vitale, Op. cit., p.95). In merito, il Marchese (F. E. Marchesii, Liber de neapolitanis familis ad Hieronymum Carbonem, in Vindex neapolitanae nobilitatis Caroli Borrelli, Napoli,1653) sottolineò come l’antico lignaggio delle famiglie nobili di seggio doveva rimanere collegato ai fattori della ricchezza e virtù.
59) L’ordine citava “no se possiede intentar por mis Ministros actuales durante su Ministerio, ni por sus Parientes Reintegraciones a estas Plazas”. (Riflessioni intorno alla giustizia del divieto che hanno li signori Ministri a poter dimandare reintegrazioni agli onori delle Nobili Piazze Napoletane, Napoli, 1739, p.12).
60) Il Capecelatro (Origine della città, Op. cit., p.147) scrive che tale parlamento era “solito radunarsi ogni due anni” per decidere “il solito dono al Re di due milioni di ducati”.
61) Secondo il Capecelatro (Origine della città.., Op. cit., p.143) gli eletti, detti capitani del Tribunale dell’Annona, con il Prefetto dell’Annona nominavano il Grassiere, con il compito “di fare, che le cose vadano per lo loro dritto sentiero, e andando altrimenti, impedirle, e darne contezza al Re o al Capitan Generale”. Gli eletti con il Grassiere, poi, potevano punire i misfatti con varie pene, esclusa quella della morte.
62) cioè rango episcopale, con relative insegne e facoltà; furono concessi dal XVII al XX secolo con varie Bolle pontificie, l’ultima delle quali è la Bolla Neapolitaane Civitatis Gloria di Papa Pio XI, in data 15 agosto 1927, che concede all’Ill.mo e Rev.mo mons. Tesoriere il “titolo,dignità e privilegi del Protonotario apostolico ad instar e il titolo di Abate della soppressa Badia di Mirabella Eclano, con i privilegi degli Abati cassinesi” e agli Ill.mi e Rev.mi Cappellani, durante munere, i privilegi di Prelati domestici di Sua Santità.
63) L’Abate Tesoriere della Cappella viene nominato con Breve apostolico dalla Santa Sede, a cui risponde direttamente
 

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