
Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili
di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti
alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che
abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.
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Famiglia
d'Alessandro |
La “primula
rossa”: il duca Giovanni Maria d’Alessandro
-Parte
prima-
(a
cura di Ettore
d’Alessandro) |
Nell’autunno
del 1860 Nicola de Luca, governatore sabaudo della provincia di Molise,
telegrafava al Ministero della Polizia in Napoli quanto segue:
“Dopo la ribellione di Isernia la reazione si è
manifestata vittoriosa nei Comuni di Civitanova, Carovilli,
Pietrabbondante, Pescolanciano e Chiauci. Mi si dice suscitata e
capitanata dal Duca di Pescolanciano, che tiene in agitazione il
restante dei comuni del distretto d’Isernia”.
Quel duca di Pescolanciano, all’epoca, era
Giovanni Maria
d’Alessandro, capo plotone della Guardia d’Onore della Provincia di
Molise e poi capo squadrone e Gentiluomo di Camera di S.M. il re
Ferdinando II di Borbone, cavaliere della
Chiave d'Oro. Personaggio illustre di antica Casata
napoletana del
Sedil di Porto,
contribuì come i suoi predecessori al lustro e sviluppo delle sue terre
depresse della provincia di
Molise.
Castello di Pescolanciano, targa
in memoria del duca Giovanni Maria d'Alessandro |
E’ noto, infatti, il suo impegno nell’opera di scavo
dell’area archeologica di Pietrabbondante, della quale fu Sovrintendente
Regio nel 1857. Riuscì con successo a far emergere l’intero teatro
sannita e a coinvolgere sul posto (1846-47) lo storico tedesco Teodoro
Mommsen (invitato dal re Ferdinando II nel suo Regno) per
approfondimenti culturali.
Fu
nominato, poi, Ispettore dei Regi Scavi del distretto d’Isernia,
ottenendo nel 1858 l’onorificenza delle “Chiavi d’Oro”. Fu fregiato
della Gran Croce del Sacro Reale Militare Ordine Costantiniano il 19
febbraio 1860.
Il 22 aprile 1850 il duca sposò Anna M.
Ruggiero di Albano (del fu Don Ciro) in Napoli. A quel tempo, il duca
era domiciliato nella via S.Anna di Palazzo n.4, zona Toledo.
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© Il
Duca Giovanni Maria d'Alessandro nell'uniforme di Guardia d'Onore
Contado di Molise - 1840 e
Donna Anna M. Ruggiero di
Albano |
A 36 anni egli lasciò moglie e prole, nonché la gestione
della proprietà del Casato, allo scopo di organizzare nelle terre
molisane moti controrivoluzionari a difesa della popolazione dalle
truppe piemontesi. Il 22 aprile 1850 il duca sposò Anna M. Ruggiero di
Albano (del fu Don Ciro) in Napoli. A quel tempo, il duca era
domiciliato nella via S.Anna di Palazzo n.4, zona Toledo.
Insieme ad altri aristocratici locali unitisi a militari borbonici e
soprattutto con l’adesione di consistenti gruppi di lavoratori e
contadini abitanti altrove o nei suoi ex feudi, il duca contribuì a far
riconquistare e liberare le città di Pontecorvo, Sora, Venafro, Teano e
tutti i comuni vicini a Pescolanciano (Pietrabbondante, Chiauci,
Carovilli, Civitanova).
La
città d’Isernia, principale nodo di comunicazione per l’Aquila e
Gaeta -ove veniva organizzata l’estrema resistenza alle forze
antiborboniche - era già insorta contro la borghesia liberale
filosabauda (formata da persone agiate ed intellettuali) e le truppe
di occupazione piemontesi. |

©
Divisa - Guardia d'onore - 1859 |
La popolazione isernina, con il sostegno morale del
vescovo Saladino, aveva fatto giustizia, tra l’altro, di diversi
boiardi di idee liberali emergenti per la loro disonestà (Raffaele
Falciari, addetto municipale alla distribuzione del grano, fu
giustiziato dai rivoltosi perché uomo libidinoso che aveva spesso
abusato della sua carica, conferitagli dagli occupanti garibaldini,
per vituperare mogli e figlie di popolani. Furono incendiati il
palazzo e l’archivio di Stefano Jadopi, deputato liberale, molto
odiato perché usurpatore di terreni demaniali dell’agro isernino.
Tra il 2 e 3 ottobre 1860 il duca
trovavasi a Isernia, ove fu organizzato dal suo segretario Giacomo
Cece un incontro con i Sig.ri Melogi, De Lellis e Mons. Saladino per
preparare la “controrivoluzione” nelle terre molisane.
L’esempio di Isernia, successivamente, fu seguito da numerosi focolai di
rivolta anti-liberali che scoppiarono in tutto il Molise. Da Carpinone,
Macchia d’Isernia, Roccasicura, Monteroduni, Macchiagodena fino a
Cantalupo.
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Si
tramanda, tra i discendenti del d’Alessandro, lo stretto legame politico
e di amicizia che sorse in questo periodo tra il duca Giovanni ed il
comandante borbonico Kleischt, chiamato Lagrange.
Quest’ultimo, in
merito ai suddetti episodi, avrebbe dovuto condurre un’ingente truppa di
insorti, passando da Isernia, fino all’Aquila per congiungersi con i
ribelli del generale Scotti per la liberazione degli Abruzzi. Impresa
fallita per l’imprevisto arresto dello Scotti. |

© Franesco
II Re delle Due Sicilie |
Ripetuti tentativi, prima dei volontari comandati dal
liberale De Luca, poi dalla colonna Nullo composta anche da reparti
garibaldini (Cacciatori dell’Etna, Cacciatori Irpini) si successero per
la riconquista di Isernia che purtroppo cadde sul finire del 1860
soltanto sotto la pressione dell’ingente numero di reparti dell’esercito
sabaudo comandato dal generale Cialdini.
Questi, il 20 ottobre vinse lo scontro con i reparti
regolari e contadini dello Scotti Douglas al Macerone. In quella
circostanza la rivolta popolare fu sedata con l’uso della violenza e
della paura, spargendo il sangue di molti ribelli molisani.
Il
re Francesco II nutrì speranze su quella insurrezione fino alla
resistenza dell’ultimo bastione di difesa molisano, carezzando forse il
sogno di poter ripetere gli
eventi del 1799, quando guidate dal
cardinale
Ruffo, le popolazioni meridionali riportarono sul trono la
dinastia borbonica.
Con la sconfitta subita dai borbonici sul Volturno e la
caduta di Gaeta sotto gli attacchi dei Piemontesi, il duca Giovanni
Maria d’Alessandro si trovò isolato in Molise, rioccupato dall’esercito
sabaudo, tanto da essere costretto ad allontanarsi dalle sue terre,
abbandonando il vecchio maniero di famiglia in Pescolanciano (luogo da cui partì l'organizzazione
dei moti controrivoluzio-nari) per seguire in esilio con la propria
famiglia il suo re, riparandosi in Tauro ed a Roma. |

© Il
duca Giovanni M. d'Alessandro
in abiti civili a Roma - Anno 1862 |
Da qui apprese
l’amara notizia della capitolazione dell’ultimo caposaldo borbonico
di Civitella del Tronto, arresasi ai piemontesi il 20 marzo 1861
(per l’occasione fu recitata messa solenne ed intonato il Te Deum
insieme a numerosi reduci e Famiglia Reale).
La caduta del Regno delle Due Sicilie non segnò la fine dei moti di
resistenza, né della speranza di riscatto dagli invasori del Nord.
Nel Molise, così, il d’Alessandro continuò a fomentare la rivolta
contro gli occupanti piemontesi (bandi e volantini inneggianti alla
rivolta con i simboli di Casa d’Alessandro furono affissi in tutte
le terre degli ex feudi).
In poco tempo, risultò la provincia di Molise essere una tra le
province del Regno d’Italia più infestate da bande armate di “briganti”, che commettevano scorrerie ed
atti di sabotaggio. Nell’autunno del 1862 la prefettura della
Provincia di Molise segnalava circa 213 briganti. La repressione,
però, non si fece attendere ed anzi fu alquanto cruenta e
sanguinaria seguendo le procedure adottate dal generale Pinelli, con
il suo proclama di repressione (che fece scandalo in tutta Europa)
emanato ai tempi della battaglia di Civitella del Tronto.
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La legge Pica, approvata con urgenza nell’agosto del
1863, servì a legalizzare la violenta repressione con l’illegale
istituzione dei tribunali militari, le fucilazioni sommarie, gli
arresti a lavori forzati etc. In soli cinque mesi di attività, il
tribunale militare di Campobasso pronunciò una cinquantina di
condanne contro persone (in prevalenza di ceto contadino) sospettate
di brigantaggio e ben presto il carcere di questa cittadina divenne
uno dei carceri più affollati del Mezzogiorno (nel 1863 ospitava
1.013 detenuti contro 1.000 circa del carcere di Napoli. Il
Berlingieri scrisse che in quell’anno nelle carceri di Campobasso ed
Isernia “i detenuti erano ammocchiati come
bestie immonde”). Caddero, così, fucilati i briganti
della banda di Domenico Fuoco, del Giangagnoli, dei Guerra e
Giuliani.
Nel 1865, ormai soffocati quasi tutti i focolai della ribellione, il
duca Giovanni rientrando in Napoli si trovò sorvegliato speciale
della questura napoletana del regno sabaudo a seguito della sua nota
ostilità alla dinastia Savoia, come documentato da diverse lettere
personali tra cui quella scritta di proprio pugno dal re Francesco
II in esilio al duca, in occasione della scomparsa della moglie Anna
Ruggiero. |
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© Bando legittimista.
A destra:
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Bando espropri dei fondi di Pescolanciano |
Si isolò egli, allora, dalla nobiltà cittadina dei cosiddetti
“voltagabbana” e dalla vita sociale del nuovo regno.
Tra il 1890-1892 lo stesso dovette subire, forse anche con il
consenso occulto dei nuovi governanti, l’esproprio di gran parte del
suo patrimonio di beni posseduti in Molise (numerose terre, tra cui
l’esteso bosco di Collemeluccio esteso circa 58 mila are) ed a
Napoli (tra cui
palazzo
Pescolanciano al corso Vittorio Emanuele, edificato nel 1870 e
posto in vendita all’asta nel 1891) facendo soltanto salvi l’onestà,
l’onore, la di lui lealtà e probità, che avevano distinto nel
passato sempre gli appartenenti a questo Casato.
La fedeltà al suo re Francesco II, dal quale
ricevette personalmente in dono un album di fotografie di corte
durante l’esilio capitolino (così come si conserva la scatola di una
preziosa pistola regalata dal Conte di Trani, lo portò anche dopo la
caduta di Roma a continui spostamenti verso le provvisorie residenze
reali. |

© Lettera
inviata a S.M. Maria Sofia, regina di Napoli |
A morte di Francesco II, il duca divenne
corrispondente segreto della di lui consorte S. M. Maria Sofia, per
la quale svolse diverse missioni (è in corso una ricerca sui
diari-taccuini personali del duca, rimasti nascosti per circa un
secolo in un vano segreto del castello, circa le trame filoborboniche di fine secolo XIX°). |

Napoli - statua di Raffaele Conforti
Ministro di Polizia |
Il
sospetto circa l’esistenza di una “primula rossa” al servizio della
causa legittimista cominciò a trasparire nei rapporti di polizia dei
governi umbertini del Crispi e Giolitti, seppur mancavano prove
certe per confermare un fermo od un arresto.
Del resto, l’epoca dei fatti è quella post-unitaria
di fine XIX secolo, allorquando il brigantaggio partigiano, fedele
al giglio borbonico,era stato quasi debellato dalla massiccia
repressione militare e Roma si accingeva a diventare la capitale del
Regno d’Italia. La generazione dei nostalgici dell’ex regno Due
Sicilie, nata o cresciuta nella prima metà dell’ottocento, era
formata dai fedelissimi di casa Borbone o dai delusi della regnanza
dei Savoia.
Professori, medici, ex militari impiegati, esponenti della piccola e
alta borghesia, nonché numerosi aristocratici, nella più completa
clandestinità (causa le repressive leggi contro qualsiasi forza
destabilizzante, dalle leggi del 29/10/1860 del ministro di Polizia
Raffaele Conforti e suoi poteri
straordinari contro coloro che turbavano la “pubblica tranquillità”
perché “traditori della Patria” fino alla legge Pica contro il
brigantaggio e successive) continuarono a sviluppare iniziative
politiche di contestazione e delegittimazione della impresa
unitaria, rea di aver trasformato le province del Sud in una sorta
di colonia del regno
di Sardegna e generato la triste “questione meridionale”, la
cui tesi relativa all’esistenza di due Italie considerava il Nord
motore trainante dello sviluppo economico nazionale, in quanto
sfruttatore delle risorse produttive e sociali del Sud.
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© La Regina di Napoli Maria Sofia |
Nei settanta anni successivi alla caduta della
roccaforte di Gaeta, tali esponenti legittimisti fondarono
associazioni, circoli, comitati con propria attività politica di
propaganda e proselitismo, utilizzando i mezzi di comunicazione di
allora (giornali, manifesti, volantini, lettere). Le forze di
governo additarono, cosi, nel “partito borbonico” quel
raggruppamento di intellettuali, legati ai rispettivi sovrani
spodestati, S. M. Francesco II (fino al 1894 data del decesso) con
l’eroica consorte Maria Sofia e successivamente S. A. D. Alfonso
conte di Caserta. Questi borbonici post-unitari, schierati contro
l’occupazione dello Stato Pontificio e fedeli alla Santa Sede,
auspicarono, fino all’epoca dell’esilio romano degli ex Reali, il
raggiungimento di un accordo diplomatico, grazie all’interessamento
delle più importanti nazioni cattoliche (Austria, Russia),
finalizzato a ristabilire un governo autonomo ed indipendente con
propria capitale nelle province meridionali. |
La “Nazione Italiana” avrebbe dovuto nascere, come da
proclama di re Francesco II del 15 luglio 1860, con accordi tra le
corone senza far uso delle armi o sollevazioni popolari fratricide,
alla stregua di una sorta di “Alleanza Italiana” delle esistenti
monarchie sul territorio italico (Savoia/Asburgo nel centro Nord,
Papa al centro, Borboni nel Sud). |

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Manifesto -Dispozioni organizzative
del 1866 con le insegne del duca
di Pescolanciano |
La breccia di porta Pia, con la
presa militare di Roma ad opera dell’esercito piemontese, tradì
quest’ultima speranza sia tra i fedeli legittimisti nonché anche tra
gli illusi dell’Italia sabauda (da annoverare molti
filo-garibaldini, repubblicani e rivoluzionari del partito
d’azione).
La contro-rivoluzione, a detta dei borbonici, sul
piano ideologico doveva essere perseguita in nome dell’autonomismo
ed indipendenza, mentre sul piano d’azione -visti i fallimenti
diplomatici- si perpetuò ancora l’uso opportuno delle armi,
continuando con le imprese di guerriglia “brigantesca” dei
partigiani fedeli al giglio delle Due Sicilie.
L’ideale di autonomia
(etichettato da taluni pensatori dell’epoca come “regionalismo
sanfedista”), tra l’altro, si confaceva con il modello federalista
dei repubblicani filo-Cattaneo (quale aggregazione degli Stati
preunitari nella Repubblica Italiana con conservazione delle
reciproche autonomie governative) o con quello sociofederale dei
radicali ispirati al Proudhon, Pisacane e Bakunin (organizzazione
“Libertà e Giustizia napoletana”, 1867).
Borbonici, repubblicani, socialisti rivoluzionari si trovarono in
più occasioni a condividere la lotta di piazza in diversi episodi
d’insorgenza contro il governo reale accentratore ed assolutista.
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