Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili
di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti
alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che
abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.
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Famiglia Iambrenghi |
a cura di
Fabio Iambrenghi |
Arma:
d’azzurro,
alla fascia diminuita di rosso, accompagnata in capo da
un’aquila sorante di nero fissante il sole nascente di rosso e
in punta da un leone d’argento sostenuto da una riviera del
medesimo e sormontato da due stelle di sei punte pure del
medesimo. |
Stemma famiglia Iambrenghi |
Il casato
Iambrenghi trae la sua origine dalla Terra di San Sossio,
Casale dell’antichissima Diocesi di Trevico,
strettamente legato al capoluogo Vico, con cui condivise
la soggezione alla signoria dei Consalvo e quindi, per
molti secoli, dei
Loffredo.
L’organizzazione del territorio diocesano trevicano
rispecchia infatti l’uso longobardo delle guaite, una
sorta di unione amministrativa e funzionale di più
centri abitati specializzati: così il centro antico di
Vico costituiva l’elemento simbolico e identitario,
ospitando la Cattedrale dell’Assunta, la Terra di
Castello era il centro amministrativo, essendovi ubicato
il palazzo vescovile, la Terra di San Sossio,
praticamente unita a quella di San Nicola, ospitava, con
quella, gran parte della popolazione, essendo sorta sul
sito dove sgorgavano le principali fonti di acqua
potabile. L’importanza del territorio, già
dall’antichità, era legata alla presenza dei principali
tratturi attraverso i quali avveniva il passaggio
stagionale delle greggi transumanti dall’Abruzzo alla
Capitanata, e allo sfruttamento dei rigogliosi boschi.
San Sossio
Baronia (AV) ante 1930 |
Un territorio, quello della valle dell’Ufita, purtroppo
anche molto esposto ai cataclismi tettonici che con
continuità negli ultimi tre secoli, e segnatamente nel
1732, 1930 e 1980, ne hanno raso al suolo i principali
centri abitati, cancellandone gran parte delle
testimonianze storiche, archivistiche, artistiche e
materiali.
È a causa di questi avvenimenti, oltre al fatto che lo
spoglio dei documenti è a tutt’oggi largamente
incompleto, che la prima attestazione del cognome finora
rinvenuta nelle carte d’archivio si ha solo nella prima
metà del ‘500: dobbiamo infatti parlare, per il periodo
precedente, non tanto di non ricorrenza del cognome
Iambrenghi nei documenti, quanto di assenza pressoché
totale di documenti per l’intero territorio della
diocesi Trevicana. Qualche indizio sull’origine della
famiglia può essere comunque desunto da un’analisi
onomastica del cognome e dell’evoluzione della sua forma
nei documenti dei secc. XVI e XVII.
Se infatti, dopo il trasferimento della dimora della
famiglia a Candela, in
Capitanata,
la forma prevalente del cognome è quella attuale
Iambrenghi
(1), con
qualche sporadica sopravvivenza della forma Iambrenga,
in tutti i protocolli notarili dell’Archivio di Stato di
Avellino, afferenti all’area e al periodo Sossiano, si
ha l’uso esclusivo della forma Iambrenga (per lo più
scritta Yambrenga), alternata nei documenti più antichi
(e anche all’interno dello stesso documento) con la
forma Iambrenda, che sembrerebbe quindi l’originaria.
Iambrenda può essere interpretato come una
volgarizzazione in area meridionale dell’antico nome
germanico, e quindi Longobardo, Hambranth, altrove
latinizzato in Iamprandus(2). La
formazione del cognome Iambrenda da un patronimico
Hambranth longobardo e molto presto scomparso dall’uso e
quindi incomprensibile ai più, attesta di per sé una
cognomizzazione molto precoce, confermata peraltro dal
fatto che, al suo apparire negli atti, la famiglia
risulta già ben affermata socialmente ed economicamente.
Nel corso del XVI sec. ricorrono negli atti il notaio
Cesare, ad oggi capostipite della linea genealogica
documentata giunta fino a noi, accreditato di un
patrimonio fruttifero di cinquemila ducati, i Revv. don
Antonio e don Lorenzo, Sacerdoti
partecipanti della Chiesa Madre di S. Maria Assunta di
San Sossio, i Magnifici messeri Leonardo e
Paolo, erarii dell’Ill.mo
Marchese di Trevico
rispettivamente per gli anni 1563-’64 e 1566-’67, infine
gli Eccellenti Oto (si noti il permanere di etimi
longobardi nell’area) e Poetio, presenti quali
testimoni letterati negli atti degli anni ’60 e ’70.
Morto il notaio Cesare in età ancora giovane, e
scomparsi dagli atti anche gli altri membri della
famiglia sopra nominati, il suo patrimonio ereditario fu
amministrato, nella minore età dei figli maschi Paolo
e Marco Emilio, dalla figlia maggiore Claudia,
sposata con una dote di 400 ducati a Federico Adnolfo di
Vallata. Una volta emancipati, il figlio maggiore Paolo
morirà in giovane età, da poco sposato e con un unico
figlio, mentre il minore Marco Emilio, divenuto nel
frattempo sacerdote col nome di don Camillo
(3) acquisirà
la qualifica di prius in nomine e amministrerà con
grande sagacia il patrimonio di famiglia, garantendo tra
l’altro gli studi al nipote Francesco, che
diverrà Utriusque Iuris Doctor negli anni ’40 del XVII
sec. (4).
A questi anni risale la prima attestazione dell’arme di
famiglia, la cui scoperta devo alla segnalazione di
Pasquale Cavallo, compresa in un armoriale manoscritto
di autore ignoto conservato nella Biblioteca Nazionale
di Napoli
(5) e
probabilmente da collegarsi con la presenza in Napoli di
Francesco per gli studi presso il Collegio dei Dottori
della capitale. |
San Sossio,
ruderi della chiesa della SS. Annunciazione |
Lo
stesso Rev. don Camillo istituì nel 1637 un beneficio legato
alla cappella di iure patronato della famiglia, da lui stesso
eretta nella chiesa della SS. Annunciazione di San Sossio sotto
il titolo di Santa Maria della Sanità
(6). La cappella risultava ancora de jure patronatus delli
Iambrenga, ma sotto il titolo di Santa Lucia, nel 1745
(7) ed è stata completamente
distrutta dal sisma del 1930 con l’intera
chiesa della SS. Annunciazione. |
L’U.I.D. Francesco contrasse matrimonio con donna Anna
Montanarella della Terra di Candela in Capitanata e,
all’indomani della grande peste di Napoli del 1656, in
seguito alla morte del suocero senza figli maschi, si
trasferì con la moglie e il figlio Paolo a
Candela, per amministrare le proprietà terriere di
questi, allora incentrate sulla masseria di campo detta
Giardino, che rimarrà nei secoli seguenti la principale
tenuta agraria della famiglia. La masseria Giardino,
secondo la descrizione fattane nel Catasto Onciario di
Candela, consisteva in due torri, con scaraiazzi,
magazzini, camere, chiesa e stalle, con 4 versure (4,938
ettari) di vigna maritata murata (il giardino) e 228
versure (281,466 ettari) di terreni accorpati a varia
coltura e a pascolo; essa era gestita direttamente dalla
famiglia per mezzo di un amministratore e trenta
lavoranti residenti, che potevano contare su un
ragguardevole patrimonio zootecnico. |
Candela, Masseria
Giardino |
Si legge nella visita ad limina del Vescovo di Ascoli
del 1785
(8),
che nell’agro Candelano esistevano, per comodo dei
contadini, due edicole officiate nei giorni festivi dal
clero di Candela, una nella masseria Canestrello dei
Principi
Doria,
l’altra, nel predio
vulgo dictum il Giardino, Gentis Iambrenghi eiusdem
oppidi. |
L’acquisizione del grande palazzo di Candela
(9)
si deve anche all’attenta politica matrimoniale
dello stesso Francesco, che sposò Anna Montanarella,
erede della nobile famiglia Basilico di Candela, e della
stessa donna Anna, promotrice, non senza contrasti, nel
1675 del matrimonio del figlio Paolo con Giulia Bonadies,
a sua volta erede di un altro ramo dei Basilico.
Il palazzo sorge sul fianco della collina di San
Tommaso, a ridosso delle mura della Cittadella, la
porzione più antica dell’abitato di Candela, appena al
disopra della Chiesa Matrice di Santa Maria della
Purificazione. |
Candela, Palazzo
Iambrenghi già Basilico |
La fabbrica, di tre piani complessivi
addossati al fianco della collina, ha due ingressi
principali, uno sul prospetto di monte, sormontato dallo
stemma Basilico, l’altro, monumentale, sul prospetto di
valle, con portale bugnato in pietra e imposte ferrate
imperniate nella viva roccia. Quest’ultimo è preceduto
dalla bella loggia di Luca Basilico, sorta di podio
porticato che si apre sulla valle con tre fornici a
tutto sesto sostenuti da colonne in pietra e con belle
cornici e balaustre in pietra scolpita: il cornicione
della loggia reca incisa la memoria di fondazione (1607)
a caratteri capitali.
Dalla rampa selciata della loggia, si accede
direttamente nell’atrio, coperto da un’ampia volta
lunettata con peducci in pietra di squisito disegno
rinascimentale, che disimpegna gli ambienti di servizio,
lo scalone e, attraverso una rampa selciata, i profondi
scantinati, scavati nella roccia fin sotto la strada
superiore.
Attraverso lo scalone di pietra, si raggiunge il primo
piano nobile, occupato dalle sale di residenza, ovvero
da una serie di anticamere e camere, per lo più voltate,
che si dipartono in duplice infilata dai due lati corti
di un grande salone con soffitto in legno
filologicamente ripristinato nelle sue decorazioni a
rosette.
L’appartamento del secondo piano nobile, che fu
nell’epoca d’oro del palazzo l’appartamento di
rappresentanza, è oggi accessibile dall’ingresso
posteriore. Di esso rimangono il grande salone d’onore e
l’anticamera della cappella. Il primo, oggi diviso in
due ambienti di cui uno solo conserva l’originale
soffitto a piccoli cassettoni decorati a rosette e
losanghe dipinte e indorate, ha una ricca dotazione di
porte con mostre e fastigi intagliati e indorati; sulla
parete di fondo, un monumentale portale cela quanto
resta della cappella privata dedicata alla Madonna del
Rosario, nominata nel testamento di don
Franco Iambrenghi nel 1769
(10).
L’anticamera della cappella, oggi camera da letto,
conserva miracolosamente intatto un magnifico soffitto a
profondissimi lacunari dipinti e indorati di puro gusto
manieristico. |
Cappella
privata dedicata alla Madonna del Rosario |
Anticamera cappella privata dedicata alla
Madonna del Rosario, soffitto |
Nel 1698 il palazzo fu teatro di un
avvenimento rimarchevole: la morte dell’avvocato,
giureconsulto e filosofo Napoletano Francesco
D’Andrea,
grande animatore della vita culturale del viceregno
spagnolo e paladino dei diritti del ceto civile, delle
cui aspirazioni di ascesa politico economica fu per
decenni interprete e guida(11). Nell’Archivio parrocchiale di Santa
Maria della Purificazione di Candela si conserva la
memoria originale della morte del D’Andrea(12): Anno Domini 1698, die 11 mensis
septembris, dominus Franciscus D’Andrea Neapolitanus, ex
Regius Consiliarius, in comunione Sanctae Matris
Ecclesiae, in domo Antoniae Montanarellae Terrae
Candelae animam deo redidit, cuius corpus sepultus est
in maiore Ecclesia Terrae Candelae et in cappella
Santissimi Rosarii. Sacramenta Ecclesiae sanctae
poenitentiae, eucharistiae et extremae unctionis accepit
in civitate Melfiae, adimplevitque paschali praecepto in
hoc anno in hac Terra Candelae. Et in fidem Venutolus
Archipresbiter.
La notizia della morte in Candela di Francesco D’Andrea,
tra l’altro avvenuta l’undici e non il dieci ottobre
come finora creduto dagli studiosi sulla scorta del
Giustiniani(13), e la sua sepoltura nella tomba dei
signori Iambrenghi, già riportata dal sacerdote Adriano
Bari nelle sue Notizie storiche di Candela(14), nonché la tradizione popolare che
voleva il D’Andrea ospite in casa Iambrenghi, sono
pienamente confermate da questo documento. Dal citato
testamento di Franco di Paolo Iambrenghi sappiamo
infatti che la cappella del SS. Rosario nella Chiesa
Matrice era cappella gentilizia della famiglia
Iambrenghi. |
Il primogenito di Paolo Iambrenghi, Domenico Antonio,
seguì il nonno nella carriera giuridica(15):
egli fu governatore e giudice a Calitri, poi si trasferì
nella città di Minervino, dove, accasatosi con Silvia
Mosca, acquistò un palazzo alla Scesciola, in via Santa
Maria di Costantinopoli, e una grande masseria di campo
sulla Murgia, lungo la strada per Andria, uscendo quindi
dalla comunione patrimoniale con i fratelli e fondando
quindi un ramo indipendente della famiglia che proseguì
poi con i tre figli: l’U.I.D. Nicolò, don
Paolo e il Rev. Don Patrizio, per estinguersi
poi nel corso del sec. XIX nella nobile famiglia
Caputi di
Ruvo. |
|
Il Rev. Don
Patrizio, che risiedette per gran parte della sua vita
con gli zii paterni nel palazzo di Candela, dove fu
Canonico della Chiesa Madre di Santa Maria della
Purificazione e rettore della cappella della Madonna del
SS. Rosario, di Iure patronato della famiglia, nella sua
vecchiaia, ormai ritiratosi a Minervino, il 21 agosto
1789 dette mandato al Rev. don Francesco
Iambrenghi suo cugino di consegnare alla Chiesa di
Candela un calice del valore di 100 ducati da lui fatto
lavorare in Napoli, affinché il clero candelese se ne
potesse servire nei giorni solenni nel sacrificio della
messa, ricordando di pregare il Signore per il
benefattore(16). Questa
bella opera di argento sbalzato è conservata nella
Chiesa Matrice di Candela e reca, sotto il piedistallo,
l’iscrizione dedicatoria: A DIVOZIONE DEL REVERENDO
DON PATRIZIO IAMBRENGHI accompagnata dall’arme
gentilizia dello stesso. |
Calice Iambrenghi con l’arme di famiglia
del sec. XVIII |
L’immagine del calice Iambrenghi con l’arme di famiglia
del sec. XVIII mi offre il destro per parlare di due
altri esemplari araldici coevi contenuti nell’armoriale
Montefuscoli
(17),
recentemente segnalatimi da Pasquale Cavallo, che
ringrazio di cuore.
Il primo esemplare, anche per la forma arcaica del
cognome (Imbrenga), credo possa dipendere direttamente
dall’arme descritta nell’armoriale manoscritto della
Biblioteca Nazionale di Napoli del sec. XVII; il secondo
è talmente approssimativo e scorretto, anche
nell’indicazione del cognome (Imbrenghe), da far
ritenere che si tratti di un abbozzo derivato da una
errata interpretazione forse di un sigillo poco
leggibile, piuttosto che di una brisura araldica usata
da un ramo collaterale della famiglia. |
Il secondogenito di Paolo, Giuseppe
Francesco, fu sacerdote, Canonico partecipante della
chiesa di Santa Maria della Purificazione di Candela e
rettore della cappella di famiglia prima del nipote Rev.
don Patrizio. Dopo la partenza di Domenico Antonio da
Candela, amministrò i beni di famiglia con la madre
durante la minore età di Franco e gli studi di
Geronimo. A lui si deve tra l’altro l’acquisto dal
barone Ciaburro della masseria Canestrello piccola,
altrimenti detta la Puzzaccara, nell’agro candelese
verso l’Ofanto, con fabbriche, mezzana di pascolo e
circa 400 versure (494 ettari) di terreni tutti
accorpati e a varia coltura, che venne poi, solitamente,
ceduta in affitto. A questa, il penultimo figlio di
Paolo, l’U.I.D. Geronimo(18), aggiunse in seguito la contigua
masseria Barbaschito, proveniente dall’eredità di don
Consalvo Santese di Rocchetta, suo suocero, posta ad
occidente della precedente, sempre lungo il corso dell’Ofanto
e consistente in circa 23 versure (28 ettari) di mezzana
di pascolo salda e 148 versure (180 ettari) di terreni
arativi, con stalla, tettoia porticata e pozzo.
Completavano la proprietà ulteriori 57 versure (70,366
ettari) di terreni arativi divisi in più appezzamenti
situati in diversi vocaboli dell’agro candelese, alcune
grotte per il ricovero dei suini, oltre a varie taverne
dentro l’abitato di Candela con stalle e magazzini per
le derrate.
Chi però dedicò tutta la sua vita all’amministrazione
del patrimonio familiare fu Franco, figlio minore
di don Paolo, il quale fu sempre in comunione con i
fratelli, il Rev. Don Giuseppe Francesco e l’U.I.D.
Geronimo. Dopo la morte di questi, rimasto scapolo con
due figli naturali, fu tutore dei figli minori di
Geronimo, e rimase tutta la vita amministratore
dell’azienda agricola familiare. Il Perifano(19) tratteggia con parole di grande
ammirazione questa rara figura di benefattore illuminato
ed attento: In vita, Gianfrancesco(20) Iambrenghi fu benefattore generoso
del suo paese, benefattore che mirò alla perpetuità del
beneficio, perciocché in esso studiavasi conservarne
gelosamente la sorgente. Egli non largheggiava in
donativi, ma soccorreva a tutta inchiesta di onorato
industrioso; e quando cessava il bisogno a soccorrere,
cessava dal beneficare. E così il beneficare di
Iambrenghi era illuminata teoria. Ciascun misero
agricoltore ricorreva a lui per prestanze. Egli
accorreva col suo danaro, senza mai togliere il menomo
compensamento. La somma era restituita e, se poi si
ridomandava, egli mai denegavasi. Non vi fu il caso in
che avesse fatto il mal viso al beneficato infelice.
Addoppiava, triplicava l'imprestito, ma quella somma
amava riavere al solo fine di perpetuare il beneficio.
Detestava l'accattone, l'ozioso, l'ingrato. Però non
molestava chi non rimetteva la somma tolta a lui
chiesta. Ma si negava una seconda fiata, laddove
l'ingratitudine o la dissipazione, e non la sventura,
toglieva di mano al godente il peculio tolto in
sussidio.
Don Franco, col suo ultimo testamento(21), legò anche la sua memoria
all’istituzione di un Monte dotale per le fanciulle
povere di Candela e non mancò di assicurare la
continuità della cura e delle celebrazioni nelle
cappelle di iure patronato, e con esse il perpetuo
ricordo e intercessione per tutti i defunti della
famiglia, di cui tenne altissima considerazione: Primo
ordino e comando che, subbito secuta sarà la mia morte,
si facesse dal mio erede un capitale che possa fruttare
ogni anno docati trentuno e grana venti, de’ quali
voglio che se ne celebrino tre messe basse la settimana,
due nell’altare del Santissimo Rosario, cappella
gentilizia di mia casa, che sta situato dentro la
Madrice Chiesa di detta Terra, e l’altra in giorno di
mercordì nell’altare che sta dentro il palazzo di casa
mia, e, qualora detto altare e cappella venisse sospeso,
voglio che si celebri nell’altare e cappella del
Santissimo Rosario, alla ragione di carlini due la
messa, e questo mondo durante, et in perpetuum,
applicando dette messe tanto per l’anima mia che per gli
miei genitori e tutti gli altri della fameglia
Iambrenghi, ed il cappellano che dovrà soddisfare e
celebrare dette messe sia ed abbia da essere della
fameglia e discendenza del mio erede don Giuseppe
Clemente […].
|
Don Giuseppe Clemente, erede
unico morale e materiale della famiglia, sposò in prime
nozze Cecilia Mazza di Ariano, dalla quale ebbe
Geronimo, primogenito, e Marianna. Sposò poi
in seconde nozze Anna Antonia
Alemagna,
rampolla di un’antica famiglia di avvocati e proprietari
terrieri dello Stato di San Severino(22). Nel momento di iniziare una nuova
vita, egli volle accogliere la sposa in un palazzo
rinnovato ed arricchito nell’appartamento nobile. Ed è
così che, sotto i fastosi soffitti seicenteschi del
secondo piano nobile del palazzo candelese, venne creata
quella ricca decorazione in legno dipinto e dorato che
tanto colpirà il giovane Romolo Caggese in occasione
della sua visita a Candela dell’agosto 1905
(23), per il contrasto stridente con il
deplorevole stato di conservazione dell’immobile.
Ancora oggi, benché il salone sia stato diviso in due
ambienti e siano andate perdute le cornici di raccordo,
si possono ammirare le belle porte, severe nella loro
livrea verde muschio, con i rincassi sottolineati e
ravvivati da cornici modanate e indorate a lamina su
fondo rosso, su cui campeggiano i monogrammi coronati
DGCI (Don Giuseppe Clemente Iambrenghi) e gli
intagli lignei indorati a motivi floreali. Gli episodi
migliori della decorazione sono le monumentali imposte
che davano accesso alla cappella, di linee estremamente
pulite e classiche, probabilmente perché foggiate sulla
grande cornice tardo rinascimentale preesistente(24), e le porte d’accesso ai locali
principali, dove l’intaglio si approfondisce acquistando
espressività senza perdere di grazia, e raggiungendo
così notevoli vette di eleganza. |
|
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Candela, palazzo
Iambrenghi, porte con monogrammi coronati DGCI (Don Giuseppe
Clemente Iambrenghi) |
Sarà questo, però, l’ultimo intervento
qualificante operato sul palazzo: i lunghi anni della
sua decadenza saranno da qui innanzi lo specchio della
crisi inarrestabile di tutta una classe sociale, e di un
sistema economico espressione di quella, non più in
sintonia con i tempi nuovi ed esposta irrimediabilmente
agli enormi sconvolgimenti politici, economici e sociali
che si stavano preparando. Fu infatti l’incertezza dei
tempi, che si tradusse anche in incertezza della resa
dei raccolti, a far sì che la famiglia, Giuseppe
Clemente e dopo di lui i figli Geronimo e
Luigi, si orientasse sempre più sulla sistematica
cessione in affitto delle masserie(25), limitando sempre più la porzione di
territori gestiti direttamente. Questa scelta, condivisa
da altre famiglie primarie del paese, portava però ad
una diminuzione delle rendite, a fronte di una maggiore
sicurezza delle stesse, e favoriva così l’emergere di
una nuova classe imprenditoriale, spesso proveniente dal
ceto popolare, che, adottando nella gestione delle terre
strategie commerciali molto spregiudicate, si assicurava
una buona disponibilità di contante da far fruttare con
l’esercizio dell’usura a scapito degli stessi locatori,
i quali, per mantenere uno stile di vita consono al loro
stato, vedranno man mano erodere le loro proprietà e
rendite.
Fu innanzitutto l’epoca napoleonica, con tutto il suo
portato di scorrerie di eserciti e tensioni sociali, a
dare i primi scossoni alla monotona vita della provincia
borbonica. Un’eloquente testimonianza del clima di
incertezza del futuro introdotto dai convulsi
avvenimenti del decennio francese anche in Candela e
nella stessa nostra famiglia è offerto dal diario tenuto
dal 1799 al 1829 dagli Ascolani Giuseppe Antonio ed
Ermenegildo Tedeschi, recentemente ripubblicato da
Claudio Grenzi Editore in una bella edizione critica a
cura di Antonio Ventura(26): annota Ermenegildo Tedeschi al 28
febbraio 1807: A’ 28 detto giorno di sabbato Don
Geronimo Iambrenghi è caduto in mano di tre ladri nel
vallone di Pietralonga, tornando da Rocchetta in
Candela. Essi l’han portato secoloro e la Domenica han
mandato in detta Candela un ricatto di ducati 60000
(27). Si è spedita buona summa e molto
argento lavorato, ma don Geronimo non si vede, né se ne
sa notizia son nove giorni. Il doloroso lutto in dilui
casa, in Candela e in Ascoli è inesprimibile. E
comunemente si dice non essere giammai accaduta cosa
simile. E ancora 13 giorni dopo: Il venerdì a sera, 13
marzo alle ore 2 ½ si rimpatria in Candela Don Geronimo
Iambrenghi. Miracolo! Sapendosi la storia si scriverà.
Credo che l’episodio, peraltro completamente rimosso
dalla memoria familiare, abbia comunque segnato
profondamente l’esistenza di Geronimo, essendo accaduto
solo pochi mesi dopo la morte di suo padre, e quando già
si stava avviando un’azione giudiziaria per
l’interpretazione delle volontà testamentarie di questi,
che avrebbe portato ad un estremo frazionamento della
proprietà tra i vari eredi.
Poco da dire ci rimane degli ultimi due secoli di
storia, con l’erosione progressiva delle proprietà
terriere e il conseguente ritorno dei principali
esponenti della famiglia agli studi universitari e
all’esercizio di onorevoli professioni e di cariche
pubbliche: Vincenzo di Giuseppe, primo
nipote di Geronimo, si laureò in Medicina all’Università
di Napoli nel 1853, ma morì quel medesimo anno. Il
fratello Pietro, laureato anche lui,
esercitò la professione di farmacista in Candela per
molti anni, sposando Consiglia Irace, figlia del dottore
fisico Luca, di antica famiglia originaria di Prajano. |
Vincenzo Iambrenghi |
Pietro Iambrenghi |
Dei suoi
figli, il primogenito Giuseppe fu sacerdote, Canonico
partecipante della chiesa di Santa Maria della
Purificazione di Candela, e il penultimo, Antonio,
la carriera militare nei RR. Carabinieri interrotta da
un incidente durante i moti agrari del 1919, sposò
Augusta, figlia del dott. Pasquale Lucentini e di donna
Clotilde Argentieri Tebaldeschi di Norcia e trasferì la
famiglia, prima temporaneamente, poi stabilmente dal
1924, in quella città, di cui il secondo figlio Italo,
Professore di Scienze Matematiche, è stato sindaco dal
1960 al 1964 e amministratore per quarant’anni e dove è
l’attuale residenza degli ultimi eredi. |
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________________
Note:
(1) -
Lo stesso Francesco che si trasferì da
San Sossio a Candela viene detto de Iambrenga nei
documenti di San Sossio e Iambrenghi in quelli di
Candela.
(2) -
Il nome nella forma latinizzata è
attestato ad es. nel Codex diplomaticus Cavensis, Vol.
1, documento 54, c. 68. Per l’etimologia del nome, si
veda: Peirce G., Le origini preistoriche dell’onomastica
italiana, e-book Smashwords.
(3) - Negli atti è detto
Rev. Don Camillo, seu Marco Emilio: era probabilmente
uso dei canonici in quell’epoca, testimoniato anche in
altri casi, mutare nome all’ordinazione sacra, all’uso
degli Ordini Regolari.
(4) -
Il
primo documento in cui Don Francesco appare col titolo
di U.I.D. è: Archivio di Stato di Avellino, Notai
Ariano, Busta 1404, Vol. 1644-1645, ff. 98 - 98v..
(5) -
Biblioteca Nazionale di Napoli, Sezione
manoscritti e rari, collocazione: XVII.25, segnalazione
e foto di Pasquale Cavallo, curatore del sito web
www.nobili-napoletani.it .
(6) - Archivio di Stato di
Avellino, Notai Ariano, Busta 633, Vol. 1648-1649, ff.
48v. – 50.
(7) -
Archivio Segreto Vaticano, Congregazione
del Concilio, Relat. Dioc. (Visite ad limina), 818 A, f.
289r.
(8) -
Archivio Segreto Vaticano, Congregazione
del Concilio, Relat. Dioc. (Visite ad limina), 81 B, f.
87r.
(9) -
Iambrenghi F.,
Il palazzo Iambrenghi di Candela,
2015 (disponibile in
www.lulu.com).
(10) -
Sez. Arch. St. Lucera, Atti dei notai,
Protocolli, Ser. I, Vol. 3031, Notaio Michelangelo
Bascianello, cc. senza segnatura ed inserto, Candela,
1769, ottobre, 27, apertura del testamento del magnifico
don Francesco Iambrenghi, rogato l’11ottobre 1769.
(11) - Per un
inquadramento generale della figura del D’Andrea e per i
riferimenti bibliografici si veda Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana di G. Treccani, Roma, 1981, ad vocem D’Andrea
Francesco.
(12) - Archivio Capitolare
di S. Maria della Purificazione di Candela, I libro dei
morti, c. 31 v., atto 352.
(13) - Giustiniani
Lorenzo, Memorie istoriche degli scrittori legali del
Regno di Napoli, I, Napoli 1787
(14) - Bari sacerdote
Adriano, Candela Notizie storiche, Tipografia Melfi e
Joele, Napoli, 1912.
(15) - Archivio di Stato
di Napoli, Collegio dei dottori, contenitore 43, c. 38,
anno 1702.
(16) - Sez. Arch. St.
Lucera, Atti dei notai, Protocolli, Ser. II, Vol. 1239,
Notaio Michele Ciampolillo, cc. 42 e ss.
(17)-
Biblioteca Universitaria di Napoli, Imprese, ovvero
stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano
Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed
altri, Volume IV, parte 2a, c. 205, 1780 c.a.
(18) -
Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei dottori,
contenitore 68, c. 146, anno 1730
(19) - Perifano Casimiro,
Storia statistica di Candela, comunità numerata nel
distretto di Bovino, Provincia di Capitanata, Napoli,
Tip. Trani, 1846.
(20) - Così nel testo, ma
in realtà si tratta di Franco.
(21) - SASL, Atti dei
notai, Protocolli, Ser. I, Vol. 3031, Notaio
Michelangelo Bascianello, cc. senza segnatura ed
inserto, Candela, 1769, ottobre, 27, apertura del
testamento del magnifico don Francesco Iambrenghi,
rogato l’11 ottobre 1769.
(22) - In Provincia di
Salerno; in particolare gli Alemagna risiedevano nella
borgata o casale Barbuti, nell’attuale Comune di
Fisciano.
(23) - Caggese Romolo,
Foggia e la Capitanata, Claudio Grenzi editore, Foggia,
2008. L’edizione è ristampa anastatica dell’opera
originale del 1910.
(24) - L’altare domestico
già esisteva, come abbiamo visto, all’epoca di Franco
Iambrenghi, che lo nomina nel suo testamento.
(25) - Nei protocolli
notarili di Clemente Bascianelli presso la sez. di
Archivio di Stato di Lucera, che coprono il lungo
periodo dal 1793 al 1831, si trovano numerosi contratti
di affitto delle masserie Giardino, Ciaburro e Santese,
che qui non si riportano per brevità e perché esulanti
dal presente argomento, ma il cui studio sarebbe di
grande interesse per la conoscenza delle dinamiche
economiche del periodo francese.
(26) - Giuseppe Antonio
Tedeschi, Ermenegildo Tedeschi, Diario di Ascoli
Satriano 1799-1829, a cura di Antonio Ventura,Claudio
Grenzi Editore, Foggia, 2008.
(27) - Così nella
trascrizione, ma la cifra penso sia da interpretare più
credibilmente come 600,00.
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